Terrapadre

Terrapadre

copertina
anno
2009
Argomento
Collana
Categoria
pagine
104
isbn
978-88-6266-197-3
9,50 €
Titolo
Terrapadre
Prezzo
10,00 €
ISBN
978-88-6266-197-3
Di questo romanzo in bozze Walter Mauro scriveva:
“Coinvolge il nodo tematico della memoria…
obbedisce sostanzialmente alla esigenza della parola, intesa nelle sue significazioni più scarne, essenziali…
un misterioso punto di incontro permette di utilizzare schemi e stilemi nuovi e diversi nella fruizione del ricordo, del tutto distaccato dall’uso consueto e logoro della nostalgia…
l’intero tessuto narrativo si sviluppa e si distende su un terreno deprivato di punte sentimentali…”
 
Silvia Martufi è nata e vive a Roma dove è psicoterapeuta.
Ha scritto saggi scientifici, di critica letteraria e d’arte.
Per le sue raccolte poetiche ha avuto significativi riconoscimenti fra cui, nel 2003, il Premio Libero de Libero e, nel 2008, il Premio Alfonso Gatto.

INCIPIT

L’evento
 

Il suo viso roseo, brunito di segni e colori castani, lungo viso di non più giovane uomo che andava, si stagliava contro di prospetto senza affanno. Con quella lucidità quasi folle che si crea nei momenti di disperazione, vedeva formarsi davanti a sé quella immagine che saliva.
Sola, forte, verso l’alto.
Un viso importante, di uomo con sembianza quasi orientale per quel taglio d’occhi e labbra piccole ma carnose, ben disegnate sotto l’accenno dei baffi leggeri, discreti da sempre pure nella loro vanitosa pretesa.

Poi, le mani. Quelle mani così grandi. Mani di curatore, mani non accarezzate abbastanza, mani forti di prepotenza infantile, inadeguata e temprata violenza maschile. Mani care di dolcezza nascosta, che salivano tese verso l’alto. Soltanto le mani.
Le mani sole, come in una richiesta.

La terza immagine fu la più movimentata e forse la più commovente.
Si preparava per lui un letto di bianche lenzuola.
La luce intorno era quella del mattino più luminoso e i lenzuoli erano i più bianchi, del bianco del lino e della canapa antica dove aveva dormito da bambino. Quelli delle zie, delle nonne e degli avi non conosciuti, ma di cui tutto si era portato dentro trasmettendone un fitto immaginario anche agli altri.
A prepararglielo, quel bianco letto, erano tre donne, forse proprio tre zie.
Tre madri.
I loro abiti erano semplici, color grigio fumo, con sopra dei piccoli fiori. I corpi rotondi, turgidi nelle spalle e nel sedere.
Tutte insieme alzavano in aria quei lenzuoli, per poi lasciarli ricadere in sincronia in una nuvola. Tutte con lo stesso tempo, lo stesso ritmo di movimento sapiente. Quella nuvola gonfia rallegrò così il loro gesto, ricalcandone il senso e il sapore d’attesa.

Sullo sfondo, intorno a un tavolo, un grande tavolo ovale sollevato appena nell’aria come quei lenzuoli, un consesso di uomini e donne decideva di lui, forse della sua prossima sorte.
E questa fu la quarta immagine.

Quell’evento si preannunciò così nel sonno che aveva seguito il viaggio di fatica e di paura attraversato accanto a lui durante quei giorni.
Sei cappuccini caldi nel termos, il vuoto del rumore della metropoli intorno. Quella città, che non gli apparteneva. Il fiume, enorme quella notte, scorreva lentamente come a dar tregua, accompagnando quel passaggio che accadeva lento.
Era l’alba. Un’umida alba di novembre, piena di nebbia e smog che saliva dentro fino alle ossa. C’era l’impegno a stare in quell’accadimento che obnubilava la realtà che si nascondeva vicina e che non era pensabile.
L’impegno, tutto, come quella nebbia avvolgeva le loro presenze alla sua. E questo durò fino in fondo, come in un tempo infinito.

Poi: «È morto» disse, uscita dalla sala di rianimazione una donna piccola e bionda in camice verde-azzurro.
«Morto!?» ripeterono dalla panchina del corridoio seduti in fila indiana, raccolti nell’attesa dalla notte intera come in un pezzo solo.

Morto è solo un tonfo. È nel boato che fa il ghiacciaio quando cade in uno dei suoi pezzi a valle, tra le morene. È un bianco vuoto dentro l’anima che sale a malapena su verso il pensiero, per creare l’idea e ritonfare un’altra volta. A ribucare il bianco. Il bianco del silenzio. Del non più, del non più possibile, del non più cos’è.
Un tonfo.
«È morto. Morto.»
Morto cos’è? Come morto? Cosa morto?
Il giorno rischiarava appena dietro le vetrate.
«Guarda! È l’alba» disse Daniele col dito puntato.
Chissà perché se ne vanno quasi sempre all’alba. Dopo l’affanno che pervade tutta la notte, il suo buio, le orme nascoste. Come per un rinvìo dovuto. Come a un impegno sacro. Se ne vanno all’alba, accompagnando gli altri all’inizio del giorno, per non esserci più, non più sostare. All’alba, quando tutto è più tranquillo e si può ricominciare. E si tira un sospiro, uno sbadiglio, per la notte passata. Allora, vanno via.

Di quegli individui che quando vanno via è come se cambiassero il mondo. Quegli individui che, se vanno via, lasciano da pensare per sempre. E sono come quelle colonne dei grandi patii, dei templi o delle ville antiche dove se ne togli una, non regge più niente di tutta la struttura o quantomeno dovrà mutare per forza tutto l’assetto.
Quegli uomini poche volte capita che nascano o che s’incontrino e quando capita, non puoi non amarli. Ti firmano un conto, un patto da onorare che condizionerà poi tutta la tua esistenza, caratterizzandone il senso.