La realtà del precariato raccontata dalle generazioni che lo subiscono.
Rappresentanti di sette milioni di precari, gli autori di queste storie, con un registro ironico e insieme drammatico, ci fanno amaramente divertire.
Nota bene
Nell’arco di tempo intercorso tra la stesura di questi racconti e la pubblicazione del libro (circa due mesi) tutti gli autori-precari sono “scaduti” e definitivamente senza lavoro.
Introduzione
Le “voci di dentro” della precarietà mescolano i tasselli di esistenze sospese e frammentate, narrano il corto-circuito crescente tra presente e futuro, sondano quell’ombra di inquietudine che ha modificato, insieme al mercato del lavoro, l’antropologia delle giovani generazioni. Sul registro molteplice dell’ironia, del sarcasmo, della paura, dell’ansia, di un dolore senza ammortizzatori, scivolano i corpi dei nuovi lavoratori/lavoratrici a cottimo, a progetto, a nero, interinali, intestinali, che sono corporeità alienata, spolpata di diritti e bisogni, chiusa nell’abito disciplinare di una flessibilità che spersonalizza, che ferisce, che talvolta uccide.
Sono la platea insorgente degli “invisibili”, versione post-moderna dei paria, degli “intoccabili” delle società castali. La precarietà non è più una stagione a cavallo tra adolescenza e maturità, ma diventa l’intero orizzonte del vivere, del lavorare, dell’abitare, dell’amare, del mangiare, del soffrire, del morire. Questa che abbiamo di fronte a noi, spesso intenta a coltivare surrogati artificiali di felicità insieme a solitudini estreme, questa che pure ha rotto gli schemi dell’ubbidienza conformista e si è rivoltata contro l’ordine liberista, questa dei giovani meridionali che restano o che partono ma sempre che giacciono come vuoti a perdere sui marciapiedi del non-lavoro e del lavoro a tempo, questa è la prima generazione falcidiata dalla guerra di senso del “precariato totale”.
Siamo faccia a faccia con gli effetti drammatici di un modello sociale arcaicamente gonfio di modernismi, che cerca di spogliare il lavoro del suo sapere sociale, che cerca di romperne i legami comunitari, che cerca di ridurlo a nuda merce, a storie di soggezione neo-servile, a singole vite che debbono confrontarsi con un mercato cannibale e multinazionale.
Muore il lavoro come civiltà, come coscienza, come solidarietà, come alleanza. Vive il lavoro come deserto per chi non ce l’ha e il lavoro come giungla per chi mentre lo afferra già teme di perderlo. Il lavoro che non annoda i fili della tua persona agli altri e ad un’idea più gratificante di futuro. Il lavoro che soverchia le tue attese, i tuoi bio-ritmi, la tua stessa potenzialità produttiva. Muore il verbo “cooperare”. Vive solo il verbo “competere”. La grammatica della competizione, quella che regola gran parte dei linguaggi della politica, prevede che qualcuno vinca a condizione che qualcuno perda, e purtroppo gioca questa sua partita intimamente nichilista sulla pelle del genere umano e del nostro territorio naturale.
Per questo è importante raccontare la precarietà, perché solo così possiamo intenderne l’oscenità, la costituzionale violenza che la anima, l’ontologica sapienza di morte che la guida. Non è solo questione di Berlusconi. È questione di modelli sociali, di capacità di piantare la bandiera dell’alternativa in questa trincea dove i nostri ragazzi ogni giorno cadono colpiti dall’artiglieria pesante dei contratti cococò e dei populismi rococò. Dobbiamo intervenire sulla frattura multipla in cui si incrocia, vividamente, la nuova “questione giovanile”: quella del mercato dei lavori, quella altrettanto devastante della generalizzazione della forma di periferia nello sviluppo urbano, quella della crisi della capacità di comunicazione tra le generazioni.
La vita dei nostri ragazzi è una narrazione fratturata. Per esempio la vita di quel diciottenne che trascorre troppo tempo sul metrò, andando e tornando lungo la distanza tra centro e periferia; che è cresciuto senza nonni, istituzionalizzati in una casa di riposo; che lavora quando può come facchino o come friggitore di patate. Quel diciottenne tra dieci anni rischia di essere fermo nello stesso punto, immobile sul vuoto, con la spiacevole sensazione di poter precipitare da un momento all’altro.
Ecco, la sinistra ha dieci anni di tempo per provare a usare la politica come “la cosa semplice difficile a farsi”: quella cioè che cambia il destino, il percorso, il futuro, a quel diciottenne e a un’intera generazione di precarizzati.
Nichi Vendola