PRIMI VERSI
Aspettando Dio
Aspettando Dio
si incontrano uomini.
L’uomo si è tolto la maschera
e coglie la sua verità.
Non importa se corrisponde
a quella del mondo:
gli altri siamo noi.
La neve copre ogni segno
La neve copre ogni segno
delle mie mani,
consente di scoprire
un’età nuova.
Recita a soggetto
Recita a soggetto
sul palcoscenico
della luna.
L'intervento di Gabriele Dadati alla presentazione dell'8 marzo 2010
Vento, il nuovo libro che raccoglie le liriche di Paola Càsoli, permette di rispondere ad alcune domande che sarebbe bene porsi sempre di fronte alla letteratura e, più in generale, al mestiere di fare libri. O almeno fornisce risposte valide per sé, che se non saranno assolute almeno saranno un indizio da tenere successivamente in considerazione. Le domande in ogni caso sono: potrà un autore costruire un libro che sia in effetti libro mantenendo inalterata la cronologia di composizione delle parti, senza spostamenti utili a servire una struttura che subentra solo tardivamente nel progetto? E ancora prima: è possibile che un autore giuri a se stesso fedeltà nel corso degli anni, facendo di temi e stile delle costanti certe che gli permettono di avere coscienza del suo percorso e di renderlo riconoscibile agli occhi degli altri? Le risposte date da Paola Càsoli con Vento sono entrambe affermative. Paola Càsoli si forma poetessa, si concentra su di sé e cresce in una direzione certa che non prevede salti ma una costante fiducia in quello che sta facendo.
Vento raccoglie dunque sessantacinque testi le cui date di composizione vanno dal 1977 (così è datato il primo, Aspettando Dio) fino a giorni recenti. Ci troviamo di fronte a un caso minoritario ma non escluso dalla nostra storia della letteratura, che ha altri esempi eccellenti di canzonieri in cui i testi sono deposti per lo più secondo cronologia di composizione. Pensiamo all'inizio della lirica in senso moderno, i Canti di Leopardi, in cui i primi due testi, All'Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, sarebbero anche i più antichi composti, nel 1818, se non fosse che l'anno precedente aveva visto la luce Il primo amore, che avrebbe poi occupato la decima posizione. Ma la tendenza all'ordine cronologico c'è, seppure con adeguati raggiustamenti che hanno di volta in volta motivazioni diverse, e così sarà questo un precedente per Paola Càsoli. E un altro esempio che si può richiamare alla mente, esempio di un poeta che per tutta la vita ha scritto progettando le sue raccolte come le ante di un unico polittico dal significativo nome di Canzoniere, è senz'altro Saba, che s'è sentito in obbligo anche di fornirci quello strumento importante che ha per titolo Storia e Cronistoria del Canzoniere. Paola Càsoli dunque appartiene a questa famiglia della fedeltà a se stessi, a questa famiglia del deposito su carta di un vero e proprio diario poetico fatto in privato ma destinato a diventare pubblico, che trova una sua sincerità costruttiva nell'ordine cronologico e nella non reticenza.
L'altra domanda che ci si era posti in apertura riguardava la fedeltà che l'autrice dimostra a se stessa lungo il suo percorso.
Il primo ambito della fedeltà è questo: la fedeltà del sentire. Paola Càsoli si immerge nel mondo, che non è solo il contesto privato degli affetti ma è anche il contesto sociale, e registra sulla superficie della sua sensibilità una risposta emotiva che ponendosi alla base dei versi riceve una formalizzazione e diventa quindi fruibile anche per gli altri. Il risultato è che possiamo a nostra volta viaggiare nel viaggio che Paola Càsoli ha già fatto, sentendoci accolti, mai fuori posto. Un esempio chiaro di questo potrà essere proprio quell'Aspettando Dio che apre la raccolta e che leggiamo nei suoi sette versi:
Aspettando Dio
si incontrano uomini.
L'uomo si è tolto la maschera
e coglie la sua verità.
Non importa se corrisponde
a quella del mondo:
gli altri siamo noi.
Rapportandolo alla data riportata in calce, il 1977, saremo giocoforza costretti a orientare la nostra interpretazione e a credere che si stia registrando la risposta della poetessa a un momento storico di confusione, di apprensione e infine di dolore. Ai primi due versi abbiamo un Dio che è assente, ma che pure si avrà la speranza che esista, se lo si attende; al terzo e al quarto la volontà di camuffarsi perché camuffarsi è proteggersi (il topos della maschera); ai due successivi la divaricazione tra quello che ognuno di noi è, con la propria verità, contrapposta a quella del mondo; e all'ultimo infine una identificazione che ci colpisce a fondo. Siamo infatti incerti se interpretare quel “gli altri siamo noi” dell'ultimo verso come una riconciliazione oppure come una constatazione angosciata, che nello spossessamento ci proietta verso il fuori di noi, un fuori che potrebbe non piacerci. Ecco quindi un esempio di come la poesia di Paola Càsoli sia anche una poesia politica, vale a dire una poesia di riflessione sul consorzio umano, sulle sue frizioni, registrate in rapporto alla propria interiorità e poi rese in pagina.
Il secondo ambito della fedeltà è poi questo: la fedeltà tematica. Vale a dire che Vento è tutto innervato di temi su cui si torna a indagare, segno che lungo gli anni di lavoro non si sono sviluppati interessi momentanei, magari di moda, ma sempre ci si è tenuti a filoni fondanti. È questo davvero un bel segno di fedeltà, a se stessi come alla possibilità di credere che la letteratura abbia a che fare con la ricerca della verità, a maggior ragione perché i temi in questione sono tutti temi fondamentali. Il primo che abbiamo incontrato è proprio il tema di Dio, visto però come assenza (e Assenza era il titolo della raccolta d'esordio di Paola Càsoli, Parma, La Pilotta, 1982, con prefazione di Giuseppe Marchetti e una suite di disegni di Marina Burani collocata al centro dell'impaginato). Questa assenza divina porta di contro a una presenza semantica, una disseminazione di cui registriamo qui qualche campione: si parla di “peccato” al verso 17 in Ho mangiato un cuore, che nei due versi prima aveva rispettivamente “creazione” e “Adamo”. Oppure in Una vuota cornice, verso 17, leggiamo “Demiurgo” constatando così una fuoriuscita dalla tradizione cristiano-cattolica per allargare a una cultura legata alla filosofia antica. Ma è negli ultimi testi della raccolta che il tema di Dio acquista ulteriore spessore. Il quarantaseiesimo testo, Brillio della neve, introduce l'“angelo” non ancora come creatura oltremondana ma come pietra di paragone (leggiamo infatti, vv. 7-9, “la perfezione si mostra / ai nostri occhi / d'angelo.”) e all'altezza del quarantanovesimo testo, Inseguire gli uccelli, si passa al senso proprio, quando ai versi vv. 12-14, gli ultimi della lirica, leggiamo: “Angeli fiammeggianti / angeli osannanti / tutti in mio soccorso”. Se Dio rimane assente, che la distanza sia almeno coperta dalle moltitudini delle creature celesti. Ecco allora che si giustifica il testo cinquantasei, che leggiamo:
La mia consolazione è nel Signore
Egli ha fatto cieli e terra.
La Croce pura esplosione
trampolino lanciato
nel vuoto.
Croce umanità
croce santità
croce valore
croce luce
croce adorazione
croce visione
croce desiderio
croce affanno
croce piacere
croce tutto.
Così, se pure il “Signore” non si palesa, ha comunque il valore positivo di un qualcosa a cui tendere, dando in cambio “consolazione”. La ripetuta anafora che concentra l'attenzione sulla “croce” fa di questo tendere un tendere neotestamentario, volto soprattutto al Figlio più che non al Padre, ed elegge il supplizio – invece che la predicazione o la resurrezione o altro – come motivo su cui riflettere. In Bianche praterie, testo sessantuno, abbiamo ai versi 4-6: “Abbraccio l'universo / nel pieno abbandono / di Dio”, dove “abbandono” è ambiguo, perché non si riesce a decidere tra il valore positivo di un “abbandonarsi a” e quello invece negativo di un “essere abbandonati da”, anche se quest'ultima interpretazione è forse da preferire. E infine al primo verso della penultima lirica tornano gli angeli, con specificazione per gerarchie: “Serafini, Cherubini ci portano in alto”.
Sempre parlando della fedeltà tematica scopriamo che Paola Càsoli riflette lungamente su cos'è e che valore ha la poesia. La comparsa di questo motivo si affaccia con il quinto testo, che ha come incipit proprio la parola “poesia”. Leggiamo:
Poesia,
nelle tue mani,
esistere,
soltanto credere
e affidarmi.
I tre verbi presenti sono tutt'altro che inerti: “esistere”, “credere”, “affidarmi” hanno infatti un contenuto semantico di valore esistenziale e facilmente si orientano nell'alveo di quella ricerca metafisica, spirituale, propriamente cristiana di cui s'è parlato finora. La poesia insomma è, perché no, una risposta umana che ci si può concedere nel mentre dell'attesa.
Tutto dedicato alla poesia stessa è il tredicesimo testo, di cui leggiamo i primi quattro versi: “La mia poesia / non è frammenti / sia pure preziosi, / ma sostanza”. La dichiarazione è forte e la possiamo far dialogare con la storia della nostra letteratura nazionale. Come noto fin a livello manualistico il primo titolo del Canzoniere petrarchesco era infatti Rerum volgarium fragmenta, un titolo che ci dava appunto sia il senso del distanziarsi dalla forma poematica sia quello dell'andare ad abitare quella lingua, il volgare, inteso come espressione alternativa al latino. Ecco allora che nel rifiutare i frammenti, Paola Càsoli dice espressamente che il suo è un canzoniere, che è appunto l'approdo definitorio di Petrarca per il suo libro. Ed ecco allora, si parva licet, che anche Vento sarà la storia di un'anima, ben tenendo presente che come già detto è un'anima che non si rapporta solo ai suoi stretti dintorni ma s'allarga al contesto, e quindi alla società, alla politica e alla storia.
Ancora di marca metapoetica la lirica seguente:
Tutto ha valore
è poesia.
Il quotidiano
che conosciamo
e rinnoviamo.
Segni vitali.
Un testo importante perché ci conferma quanto intuito e già espresso finora, vale a dire che per Paola Càsoli la pratica dei versi coincide con il far cadere sul piano inclinato della sua sensibilità le cose del mondo. E un'ulteriore passo in questo senso lo abbiamo con il testo numero venti, in cui “La poesia / non deve parlare / di sé” ci dice come la necessità, una volta affinata la tecnica, sia proprio quella di guardare al mondo.
Non procediamo oltre in questo e citiamo un ultimo tema, quello del figlio, che di rimando è ovviamente il tema della maternità. È però indagato secondo un preciso punto di vista, perché si istituisce un osservatorio specifico sul figlio nel suo solo esser grande, nel suo farsi uomo e quindi, in certa misura, nel rendersi altro rispetto alla famiglia di origine.
Fa capolino all'ottavo testo, che nei suoi tre versi dice:
Ritrovare
la possanza dell'uomo
che è figlio.
Si tratta di un'immagine scavata fortemente nella pagina, perché grazie all'infrequente sostantivo “possanza” viene convocata una fisicità del corpo maschile che compare così di fronte ai nostri occhi. Un “uomo” che è, tuttavia, “figlio” e che viene ritrovato, segno che un distacco c'è già stato. Un testo commovente è poi il diciannovesimo, che quel distacco appena intuito ce lo racconta: la vicenda è quella della madre che raccoglie i giochi sparsi (“omini / di lego” resi in inarcatura forte tra verso 3 e 4) e stanca per il ripetersi infinito di questo gesto e allo stesso tempo lucida nel sapere che non ha importanza e non lascerà traccia immagina quel che accadrà con il crescere di chi lei stessa ha messo al mondo. Così alla fine “Sarò consunta e debole, / minima esistenza, / madre invecchiata / figlio assente. / Liquide ore / di giorno sciacquante, / trascorrere” (vv. 27-33).
Il terzo ambito della fedeltà, infine, è quello stilistico. La voce di Paola Càsoli è sua e solo sua, sorgiva come potrebbe esserla quella della Dickinson o della Merini. Le poche tracce intertestuali sono “Fresca mattina / dalle rosee dita” (XXXXI, vv. 1-2) che rimanda a Omero e al suo epiteto formulare solitamente riferito all'aurora, c'è un ricordo di Withman forse in “Mi sono fatta un letto / d'erba”, incipit di un testo che sta a metà del libro e infine le “membra / sparse” (XVII, vv. 15-16) in inarcatura che traducono disiecta membra, termine tecnico che indica i brandelli testuali consegnatici dal novero dei secoli laddove non è possibile rintracciare il testo nella sua interezza. Ma queste tracce si perdono, non hanno quasi importanza, e invece ci lasciano una versificazione che se quasi sempre supera la misura della parola-verso lo fa per non andare troppo oltre, intenta a far stagliare i suoi periodi sul bianco della pagina. In questo sarà necessario vedere una vocazione protratta negli anni.
Si citava Leopardi all'inizio e con un motivo recondito. Ci sembra infatti leopardiana la libertà entro la misura che Paola Càsoli si impone nel suo lavoro. Poche rime, di poco più cospicue le assonanze che già si sono registrate nello stendere l'introduzione al libro alla quale quindi si rimanda, in ogni caso una generale impressione di musica data non da un'applicazione basilare delle regole ma da una ricerca legata a una consapevolezza storica che occorre esigere da un poeta nostro contemporaneo.
Paola Càsoli: per una veduta d'insieme del percorso
di Gabriele Dadati
l'occasione
Mi rendo conto, riprendendo in mano il fascicolo di materiali relativi al percorso poetico di Paola Càsoli, che ci lega ormai se non una “lunga fedeltà” (questa l'intitolazione sotto cui si raccoglie il rapporto di amicizia intellettuale che ha congiunto il poeta Eugenio Montale e il filologo Gianfranco Contini) almeno un torno d'anni estremamente intenso, per quanto breve. Ci siamo conosciuti nell'aprile del 2007, presso la Libreria Internazionale Romagnosi di Piacenza, allorché insieme alla giornalista Stefania Provinciali e al compianto direttore della Galleria Ricci Oddi Stefano Fugazza presentammo Cristalli, raccolta uscita l'anno precedente dalle Tipografie Riunite Donati di Parma. Ricordo che fu Stefano a coinvolgermi, con il consueto entusiasmo che gli era proprio nelle cose della cultura come in tutte le altre della vita, e ricordo anche la presentazione: sobria, nello spazio raccolto tra gli scaffali che la Romagnosi mette a disposizione nel suo piano interrato, con gli interventi misurati che naturalmente si sviluppano quando si ha a che fare con la poesia di Paola Càsoli. Ricordo anche che non mi fu possibile fermarmi per un brindisi dopo la presentazione, preso da qualche altro impegno già fissato, e mi dispiacque.
Il nuovo incontro avvenne con la raccolta successiva, Vento, per la quale mi fu chiesto di scrivere la prefazione. Lo feci e insieme con l'autrice individuammo l'editore adatto: Piero Manni di Lecce, che stampò il libro nel febbraio 2009 come duecentoquarantunesimo della collezione (anche qui, come si vede, torna Montale) “Occasioni” diretta da Anna Grazia D'Oria. Si trattava di un buon approdo: l'attitudine spiccatamente culturale di questa Casa, sebbene legata nella percezione al versante sperimentale neoavanguardistico del Gruppo 63 e per altri versi all'Università di Pavia almeno ai tempi di Maria Corti più che ad altre esperienze, ha permesso di costituire negli anni un catalogo di alta qualità, tra prosa, poesia e studi. Trovato il buon approdo, fu necessario sostenerlo presso il pubblico dei lettori. Così fummo insieme in qualche occasione pubblica: la presentazione presso la Pinacoteca Stuard di Parma del 9 maggio seguente, ancora insieme a Stefania Provinciali; quella dell'8 marzo 2010 alla Libreria.Coop di Piacenza; l'incontro del mese dopo, 15 aprile, nella rassegna Tea time Cafè del Temporary Palazzo di Parma, in cui oltre a noi c'era Pier Luigi Bacchini, dando così l'estro per far camminare a fianco con Vento anche i suoi Canti territoriali (accolti nello “Specchio” di Mondadori, 2009).
Quello che mi colpisce, e mi fa parlare di intensità di rapporto (ci sono altre cose, chiaro, ma quella che segue è un'evidenza), è ritrovare nel fascicolo diversi interventi scritti sulla produzione di questa poetessa. Ho provato il breve stupore del sovvenire – quello stupore che dura solo un attimo: non si aveva più presente una cosa fatta, ma una volta ripresa in mano ci torna ben presente – di fronte alle pagine stese in vista delle occasioni pubbliche. Non ho infatti l'abitudine di scrivere, quando parlo in pubblico, se non i punti essenziali secondo cui articolare il discorso. E lo faccio a penna, su fogli recuperati per lo più dalla carta straccia, e che nella carta straccia tornano subito dopo. Tuttavia per Paola Càsoli è andata diversamente e non solo la presentazione al premessa a Vento, ma anche gli interventi della Libreria.Coop e del Temporary Palazzo risultano tra i file del mio computer. Immagino che questo investimento vada visto come una necessaria cautela che pure con i poeti ci vorrà, se non si vuole incappare in quegli smottamenti che il parlare a braccio per forza di cose comporta. E ci vorrà ancora di più con una poetessa così misurata, in cui spesso prevale la parola-verso, dove la sintassi è scarna, dove l'inchiostro è raro nel bianco abbacinante della pagina. – Sia come sia, di intensità si può quindi parlare a buon diritto.
Da questa premessa (la mia “occasione”, per non uscire dall'ombra di Eusebio), che giustifica quel che segue, si capisce come risulti gradito l'invito a una sistemazione complessiva del percorso, se è vero che di questo percorso, in qualche misura, si è pur fatto parte.
gli esordi
Paola Càsoli, genovese di nascita (1946), ma da lungo tempo residente e attiva a Parma, s'è laureata nella città ducale presso la locale facoltà di Magistero, relatrice la filologa Franca Ageno, con una tesi di critica letteraria sulla lirica italiana di Carlo Maria Maggi. S'è inoltre interessata al linguaggio dei mass-media, con particolari riferimenti alle problematiche femminili, prima di dedicarsi, per un periodo, all'insegnamento.
Coerente a questa formazione – in accordo alla quale, com'è naturale, va la vita privata: il matrimonio, l'esperienza della maternità – è l'intrapresa di un percorso poetico che si rapprende da subito in una prima raccolta: siamo nel novembre del 1982 quando La Pilotta di Parma stampa Assenza, con prefazione di Giuseppe Marchetti e una suite centrale di quattro pagine di carta patinata in cui compaiono altrettante tavole in bianco e nero di Marina Burani. Il libro esce come quarto della collana “Poesia”, seguendo nell'ordine Il sale del canto. 1934-1977 (1980) di Carlo Betocchi, il più religioso e “morale” tra gli ermetici, Distanze, fioriture (1981) di Pier Luigi Bacchini, col suo approccio scientifico al mondo naturale, e Diario americano. Non-diario (1982) di Simonetta Gorreri, al suo secondo volume con la stessa editrice. In seguito sarebbero usciti pochi altri titoli, tra cui ricordiamo Stanza occidentale (1985) di Bruna Dell'Agnese, ma quel che si vuol mettere in evidenza è che quella prima uscita pubblica si collocava in un contesto di valore e di buone scelte, fatte sì sul territorio, ma con il garbo che si deve desiderare. Il volume, del resto, veniva stampato con una grafica essenziale ed elegante, la copertina in bel cartoncino grigio, e un generale sentimento di “oggetto uscito dal torchio” trasmesso da tutto il libro.
Apriva così la sua prefazione Marchetti: “Le poesie di Paola Càsoli hanno un loro tono di rifiuto e di riservatezza che colpisce subito il lettore: Amici, / siamo qui riuniti / per festeggiare / la normalità” e intercettava con esattezza, nel corso del testo, il tono generale della raccolta. Vale la pena di rileggere le sue parole: “Nel segno della resa s'annida dunque la consapevolezza che proprio la resa potrebbe esserci domani esibita come una vittoria; e sul cadere di questa possibile consolazione il dettato poetico si aggruma, quasi che essa fosse rimasta la spiaggia d'un improvviso, caldo barbaglio di luce. Si potrebbe affermare inoltre che la giusta dimensione di Assenza sia da ricercare, piuttosto che nella palmare evidenza dei versi, in un probabile, interno loro sorreggersi a vicenda, in un viaggio di tragitti paralleli che la scrittrice imposta, via via che procede, sul margine ancora pulito delle proprie emotività: Compitare / nella luce solare. / Una punta di diamante / per scandaglio / mentre si va / alla deriva”. Si tratta di rilievi giusti di questo esordio: da una parte appare particolarmente indovinato il termine “riservatezza” per definire i versi misurati della Càsoli (che stampa una raccolta divisa in tre sezioni apparenti, visto che la prima e l'ultima constano di un solo testo ciascuna, e a nessuna lirica assegna un titolo, secondo un'abitudine che si estenderà a tutto il suo percorso, interrotta rare volte), dall'altra si allude a quella forza quieta che la voce poetica sembra opporre all'accadere delle cose, che entrano nei versi, vengono registrate, ma già solo per questo devono in qualche modo chinare il capo.
L'andamento asintattico che caratterizzerà il percorso di Paola Càsoli viene in qualche misura anticipato già dalla lirica d'apertura, che dice: “La terra / è una dimensione perduta / la terra / sospesa tra noi / e la verità”. Come si vede l'assenza di punteggiatura è totale e l'unico verbo è alla seconda persona singolare e mal s'adatta all’allargarsi progressivo dei soggetti, che passano da uno a due (la sola terra viene ricollocata in gioco insieme alla verità); più oltre si leggerà il distico: “Pazza disperazione / morte danza”, dove lo strabismo sintattico è ancora più calcato. Escono poi i temi costanti di tutta la produzione: l'investimento sulla parola poetica (la terza lirica si chiude con: “quanto ritrovo la parola / è vinta la lotta / posso riposare.”) e il linguaggio in genere (“Lampi e silenzi / dove esiste l'umano / bisogno di salvarsi, / raccogliersi in una / sillaba.”); il tema esistenziale di collocazione dell'uomo sulla terra (“L'uomo ha saputo rimediare / una tettoia infranta, / poi ha lasciato / tutto in sospeso.” e ancora, più avanti: “Non conosco / somiglianze / sono pianta / o germoglio.”); l'attenzione al divino, che è qui però meno cospicua che in seguito (si legga per intero il testo che per fortunato caso cade come trentatreesimo: “Luoghi / dove fioriva / la contraddizione / chiese gigantesche / cascine raccolte / intorno a una nobiliare / dimora / uomini e donne / alla zappa nella pianura. / Piazze per contare / i propri peccati / palazzi per tenere / il povero lontano / come da un pulpito. / Secoli trascorsi / nell'ignoranza di sé / affidato il destino / ai mediatori di Dio.”) ha in ogni caso un'eco lessicale di certa rilevanza, perché troviamo nei testi – la campionatura non è esaustiva, ma varrà per tratteggiare un orizzonte generale – “fede”, “diavola”, “diavolo”, “calvario”, “croce” oltre a sintagmi che alla sfera del sacro fanno pensare, anche se in rapporto più lasco: “ciechi e sordi”, “sentimento di scandalo”, “salire in cima alla montagna” e altri ancora. In genere la valenza si lega a un segno negativo. Si pensi che la sola parola che ha valore opposto, “fede”, compare però come “parola vecchia” (al sesto testo, che in chiusura ha: “Parole vecchie fede amore / inventare / dire no all'illusione.”), e quindi smarrisce la sua valenza. Il Dio della prima raccolta di Paola Càsoli, che sempre ci sarà nella sua assenza, non sa ancora offrirci quel suo bene che invece ci darà in seguito.
Vale la pena di far notare ancora due cose. La prima è una cantabilità che in seguito sarà ben più rara. Tra rime baciate e alternate, ecco il campione assoluto di questa tendenza: “Amici, / siamo qui riuniti / per festeggiare / la normalità. / Recitiamo insieme / un ringraziamento / per l'avvenimento. / Il perbenismo è salvo / la maschera infilata / sui nostri volti sfatti / da sorrisi artefatti. / Quando scopriremo / chi siamo in realtà / faremo una risata / e oplà.” Si tratta di un testo che, si parva licet, rimanda alla Liguria in cui è nata l'autrice, se ligure intendiamo considerare Giorgio Caproni (che fu livornese, genovese appunto, romano, piacentino e anche francese; ma insomma, principalmente ligure). Si tratta di un nome che mai è stato fatto a proposito di Paola Càsoli, ma in questo suoi esordi, per la cantabilità pensosa, andrà pur ricordato (si pensi, in fatto di rime, a esiti del genere di Per lei, dedicata alla madre Anna Picchi: “Per lei voglio rime chiare, / usuali: in -are. / Rime magari vietate, / ma aperte: ventilate. / Rime coi suoni fini / (di mare) dei suoi orecchini. / O che abbiano, coralline, / le tinte delle sue collanine. / Rime che a distanza / (Annina era così schietta) / conservino l'eleganza / povera, ma altrettanto netta. / Rime che non siano labili, / anche se orecchiabili. / Rime non crepuscolari, / ma verdi, elementari.”). La seconda, sui cui poco o niente s'è riflettuto, è la presenza della suite di tavole dovute a Marina Burani, legata a Paola Càsoli da un lungo rapporto amicale. La Burani ha nelle sue corde anatomie estreme, sezioni di corpi, stilizzazioni di ossa e muscoli. Qualcosa si vede qui, dove tutto sembra fossile, e molto altro si vede altrove. In questo suo modo analitico e scabro di scavare la realtà, è dunque compagna alla poetessa, che pure mostra una maggior fiducia in vista di una felice collocazione nel mondo.
Una conferma del percorso di Paola Càsoli viene dalla seconda raccolta, Regina pacis, stampata nel 1989 da Luigi Battei, sempre a Parma, sotto l’insegna Crisopoli, che nella città ducale rimanda a una lunga tradizione che pesca fino a inizio secolo, quella dell’omonima rivista culturale. Non l’oro promesso dall’insegna è però il colore di questa raccolta, ma il rosso: a partire dal cartoncino monocromo delle copertine, per procedere a doppi risguardi interni. Il direttore di collana è Giuseppe Marchetti, prefatore della prima raccolta, ma il suo nome è solo nel foglio di guardia, perché il testo introduttivo questa volta è affidato a Gino Marchi. A Marchi si deve qualche nume tutelare ulteriore per i versi. In primo luogo perché con Montale disegna il ruolo del lettore, invitato a una giusta posizione tra il non capir nulla (viene qui in mente la risposta classica di Edoardo Sanguineti: gli venne riferita questa frase di un lettore “Mi dispiace, io la poesia proprio non la capisco”, e lui replicò: “Non mi capiscono? Che studino!”) e il capir troppo: “al di qua e al di là di questo margine non c’è salvezza né per la poesia né per la critica”. Poi perché convoca per somiglianza d’esperienza il Clemente Rebora dei Canti anonimi (usciti nel 1922 per le edizioni del Convegno di Milano), dove si vede già il germe inquieto della ricerca del senso anche metafisico, che sfocerà poi nella conversione del 1928 e nel sacerdozio dell’anno seguente. I versi “incriminati”, al solito, sono quelli di Dall’imagine tesa (“Dall’imagine tesa / vigilo l’istante / con imminenza di attesa”). E ancora, nel novero del patrimonio evocato da Marchi si collocano gli “antichi racconti biblici dei Patriarchi” di approdo a una terra di quiete che viene promessa e concessa solo dal Dio. Del resto Paola Càsoli scrive “È tempo di mostrare una più dolce terra”. È questo il bene che veniva promesso nella prima raccolta e finalmente viene concesso. È questa la felicità su questa terra, che pure è possibile, e Marchi la individua. Ma non si giunge certo a una pacificazione. “Come l’Erminia della Liberata (personaggio espressamente richiamato dalla Càsoli, riletto come emblema dell’avventura umana), ogni vicenda interiore soffre turbamenti, fughe, passioni e pentimenti, indefinibili paure, dolore di rinunce, ché ‘le strade son tutte germogli’ e ‘maggio scompone le fronde’”, leggiamo ancora. Ne emerge anche, en passant, uno dei rari agganci offerti da questi versi a una realtà altra, che non sia sorgiva.
Nel marzo 1990 la casa editrice Battei, ormai stabilito un iniziale percorso per la sua serie di poesia, promuove presso la storica libreria di Strada Cavour 5 tre incontri, voluti da Antonio Battei, Giuseppe Marchetti, Gino Marchi e Nicola Rossini. Il titolo complessivo è “Marzo e la poesia”, lo slogan “Battei legge Parma / Parma legge Battei” e la prima presentazione è proprio quella di Regina pacis (il 4), cui seguono quella di I giorni che abbiamo attraversato di Antonia Gaita (l’11) e di Esercizi di ottobre di Luca Bertoletti (il 17). Si fanno questi nomi non con finalità compilative, ma per mostrare quel contesto territoriale che diventerà da qui in poi cruciale, se è vero che verranno momenti di condivisione proprio con Antonia Gaita. Anche il nome di Marina Burani, introdotto con Assenza, non andrà trascurato. Nel 1982 la pubblicazione delle sue tavole nel volume aveva infatti promosso un altro evento: la mostra omonima, in corso dal 20 novembre al 2 dicembre presso le stanze del Convento di San Paolo a Parma, col patrocinio dell’Assessorato alle attività culturali del Comune. E il sabato dell’inaugurazione Assenza era stato presentato, sempre insieme a Giuseppe Marchetti.
Tornando a Regina pacis, un percorso cromatico – stuzzicato dal rosso abbagliante della confezione, che s’è detto – è uno dei percorsi possibili. L’attacco del primo testo, infatti, si concentra su una gamma di colori affine. Leggiamo “Corporea fiamma / di solarità penetrante” e proseguiamo dopo che la luce ci ha scolpito “occhio e mente” verso un riposo quieto ma fervente, sempre garantito dai colori, e infatti avviene “Nel verdeggiare dei campi / una scoperta armonia, / universo ondeggiante / di volontà operose”, per poi chiudere con una fusione panica: “tutto avvolge / il dorato pulviscolo / in colori di sogno”. Il testo è in limine. Segue nuovo frontespizio, e poi la raccolta si apre con “Azzurro / è il colore del mare: / nel grigio tempo / torna a cantare”, che avalla l’ipotesi del percorso attraverso i colori. Il testo seguente: “Spume bianche / e verde olivo / per riattraversare / abissi di memoria”. Nel mentre che il libro si popola di colori e di luci, raccoglie anche echi. Il D’Annunzio alcyonio del sesto testo (“La favola / bella / che ti lessi”) è rafforzato dalla Grecia nominata nella lirica successiva, e nel complesso compaiono piccole presenze, come il capretto/fauno nel testo quinto o il cerbiatto dell’ottavo. Così ci ritroviamo in quel clima panico ben conosciuto, con una conseguente disseminazione sulla terra dell’istanza metafisica, pure con venature pagane, ma che nel complesso comunque sembra indirizzare il lettore verso una qualche serenità.
intervallo in compagnia
S’è fatto un primo accenno al contesto, che a questo punto si sostanzia. Dopo le due raccolte citate infatti vengono altrettante occasioni collettanee, più una in accoppiata. Nel 1991, a cura ancora una volta di Giuseppe Marchetti, avviene la pubblicazione nell’antologia L’inquieta speranza, con sottotitolo “antologia poetica parmigiana”. L’editore è di nuovo Battei, che inserisce il volume come sesto della collezione Crisopoli, con testi tra gli altri di Gian Carlo Artoni e Pier Luigi Bacchini. Le poche righe di presentazione in questa sede hanno un passaggio che vale la pena rileggere. Ci dice che Paola Càsoli “teme il rischio del lirismo, non s’adegua ai toni del rimpianto, non gioca con le memorie; ma semmai s’innalza, a momenti, verso una riflessione duramente teologica e verso un rifiuto di ogni forma consolatoria”. Giudizio che va letto in dittico con quello espresso due anni dopo dalla rivista “Malacoda”: “Accanto a una forte carica di risentimento e di irritazione verso certe dissonanze proprie del nostro tempo, emerge il bisogno di ritrovarsi nell’intimo snodarsi di una vicenda che non soggiace al quotidiano, che si fa libera. Verifica quindi della dissennatezza umana e contemporaneamente solitaria rivendicazione di un sé appartato, ma attento”.
A questo punto Paola Càsoli si fa in qualche modo editrice, vale a dire primo movente di una progettualità condivisa con altri autori. È così che nasce Poeti, del 1994, raccolta sostenuta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Parma e stampata da Il parmigianino, nata dalla collaborazione con un grande artista emiliano di secondo Novecento, il pittore Carlo Mattioli. Gli altri tre poeti coinvolti sono Pier Luigi Bacchini, Antonia Gaita e Andrea Briganti, la prefazione si deve a Isa Guastalla. La gestazione del libro è lunga e il consenso iniziale di Mattioli, di cui viene riprodotta un’opera per ogni poeta, resta come una benedizione all’impresa, perché la sua scomparsa gli impedisce di giungere a sfogliare le pagine. Ancora il clima alcyonio è presente e del resto, come fa notare la Guastalla nella sua pagina, “incapace di adattarsi al quotidiano, la Càsoli rifiuta ogni somiglianza e, con folgorante analogia, si definisce pianta o germoglio”. Vale la pena di trascrivere qui due stralci dalla pubblicistica uscita a ridosso del volume. Nel suo articolo Quattro poeti per un pittore, uscito sulla “Gazzetta di Parma” del 31 gennaio 1995, Rita Guidi scrive: “Corporea, come alla ricerca di un colore che non c’è (di un Mattioli che non c’è?) è invece la scelta e la poetica di Paola Càsoli. Una parola umana e necessaria come quel nudo unico, raro e bellissimo che ha scelto come sua copertina. ‘Qualcuno ha definito la mia poesia sentenziosa, qualcun altro gnomica. Forse… Certamente è bisogno di comunicazione, attenzione all’uomo come tensione necessaria. E dunque quel nudo perché è uno dei più bei nudi di Mattioli: è l’enigma dell’arte ma anche la dolcezza, la tenerezza del corpo umano femminile, che è così duttile e cosi appropriata a un discorso lirico’. E il suo discorso lirico è ben rappresentato in queste sceltissime sei liriche, dalla durezza incisa delle prime ‘Lampi e silenzi dove esiste l’umano bisogno di salvarsi, raccogliersi in una sillaba’ alla più dolente morbidezza (‘Corporea fiamma di solarità penetrante’) degli anni vicini all’idea stessa di questa raccolta. Che è poi un’idea sua… ‘Proprio due anni fa avevo visto quasi casualmente una bella pubblicazione destinata a giovani pittori parmigiani e mi sono chiesta perché, per una volta, non dedicarne una anche a dei poeti. Detto fatto, ne ho parlato alla figlia di Mattioli che conosco da tempo e quindi a lui, che si è detto subito disponibile’”. E ancora, da Cinque tele di Mattioli per i versi di quattro poeti pubblicato da Emilio Zucchi sulla stessa testata il 25 giugno seguente, “Paola Càsoli sembra invece prediligere la lezione di un altro grande maestro del Novecento: Ungaretti. ‘Non conosco / somiglianze / sono pianta / o germoglio’. Il ricorso all’analogia è misurato, il ritmo franto, interiorizzato. In altri componimenti presagi di barocco (e la suggestione ungarettiana vira bruscamente da Allegria di naufragi verso il Sentimento del tempo) affollano i versi della Càsoli: ‘Permea / di ragionevole forza / l’ora presente, / mentre l’aere placato / rivela tumide fronde’”. Il volume viene presentato presso la Sala De Strobel della Cassa di Risparmio giovedì 24 novembre 1994. Insieme agli autori, oltre a Isa Guastalla, intervengono il germanista Giorgio Cusatelli e il critico d’arte Gianni Cavazzini.
Nel 1995 Anna Ceruti Burgio pubblica un pezzo prendendo a pretesto la pubblicazione di Poeti. Il titolo, didascalico, è Due poetesse parmigiane: Antonia Gaita e Paola Càsoli. L’argomento su cui apre la Burgio è un vecchio adagio: esiste uno specifico femminile in letteratura o meglio in poesia? Uno specifico che non sia solo rivendicazione di spazio, come voluto dal femminismo, ma che si basi su un modo di vedere e di rendere le cose altrimenti impossibile? Risponde Antonia Gaita “La poesia non è al maschile o al femminile, è poesia e basta. […] Le differenze sono dovute semplicemente al nostro essere individui”. Paola Càsoli, nel suo piccolo intervento, ammette “È vero comunque che in questi ultimi anni assistiamo a una forte produzione femminile, con particolari connotazioni” per precisare, in accordo con quella che è ormai un’amica, “nulla sfugge al poeta che ha tutto il diritto di manifestare la propria sessualità”. Al pezzo della Burgio su “Appunti parmigiani” seguono alcuni inediti delle poetesse (la loro poetica viene così sintetizzata: “immersa nelle sensazioni dettate dalla natura e nell’intimismo, quelle della Gaita, più gnomica e graffiante quella della Càsoli”).
Non dalla meditazione sullo specifico femminile, ma per una spontanea elezione di sentire, si stringe il legame tra le due autrici. Dopo essere state compresenti in un ampio volume collettaneo e in uno più puntuale, a quattro voci, Gaita e Càsoli si propongono legate a dittico in una nuova pubblicazione. È ancora con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Parma, stampata da Step, che nel 1997 nasce Chiarori, con prefazione di Alberto Bevilacqua. Il romanziere nelle sua pagine dedicate alla Càsoli propone un riferimento che finora non era emerso e che pare sostenibile. Si tratta di un riferimento artistico lontano nel tempo ma vicino nel territorio: Benedetto Antelami, quasi un feticcio della sobrietà di segno romanica, che se di certo ha fatto parte di un certo momento storico e della sua meditazione stilistica, è oggi un approdo che si deve cercare. Non sono infatti spontanee semplicità e compostezza e Bevilacqua intende suggerire che Paola Càsoli le trova come approdo di un lavoro di ricerca tutt’altro che banale. Apre con un’immagine a dire il vero fin troppo consueta “La poesia si scalfisce come una ferita incisa, sempre, sul marmo, a dare conto dell’essenza finale di un atto, dell’esistenza”, ma la riscatta con la precisione del riferimento successivo: “Volutamente il poeta imita il semplicismo di un adoratore naïf di quel rito agrario tipicamente emiliano, che potrebbe essere raffigurato in una scultura dell’Antelami. […] Poiché si è citato poco sopra l’Antelami (il maestro insuperato nel conferire all’elementarità apparente del romanico profonde suggestioni), ci sentiamo di ribadire che, oltre che epigrafica, la poesia della Càsoli risente in positivo della lezione ‘parmigiana’ di quel Battistero scrigno della Semplicità che raggiunge le sue altezze. La Càsoli è ‘romanica’. E noi sappiamo bene quanto l’arte di cui si fa cenno ha saputo fondere le linee essenziali della geometria umana (anche nei corpi, nelle umili figure dei lavoratori, oltre che nell’ineffabile Cristo deposto) con gli spazi allusivi del mistero”. E dunque cosa? Dunque Paola Càsoli non rifà una qualche supposta maniera romanica – non sarebbe possibile – ma alla stessa maniera di allora guarda alla realtà. L’intento è quello di prelevare singoli elementi, vederli in controluce (a questo dunque servono i chiarori del titolo. E questo sono i chiarori stessi: intuizioni di uno schema desumibile da dentro la polpa delle cose) e poi renderli in modo essenziale, ricomposti in una costellazione in cui ognuno ha una distanza certa da ogni altro. Utile quello che si legge nell’articolo “Chiarori” in poesia siglato R.T. e pubblicato dalla “Gazzetta di Parma” a memoria della presentazione del volume, avvenuta sempre nella Sala De Strobel, con Giuseppe Marchetti e Isa Guastalla, letture di Nicola Rossini. È l’occasione infatti di vedere quali sono gli argomenti indagati: “tra le tematiche ricorrenti, l’amore alla quotidianità dei gesti, un destino di solitudine, il dissidio fra sentimento e realtà, la conoscenza di sé e del mondo, possibile solo attraverso i sensi (‘siamo groviglio’), e la ricerca di chiarire a se stessa che cos’è poesia, sentita come ‘esistere’, insieme alla consapevolezza del suo difficile realizzarsi” e ancora “precisa, matematica, rigorosa anche nella scansione dei versi, la Càsoli”.
L’anno dopo, a parziale conferma di un interesse accordato al percorso condiviso, viene allestita la mostra “Artebianca. Pittura Scultura Poesia”, a cura di Stefania Provinciali, in corso dal 23 aprile al 31 maggio presso la Biblioteca Monumentale del Monastero Benedettino di San Giovanni Evangelista a Parma. I nomi coinvolti sono da una parte Liuccia Buzzoni, Roberto Ghidini, Aldo Orlandi, Giovanna Sciannamè, Orio Silvani, Dietlind Petzold, Jucci Ugolotti e Anna Vettori, dall’altra, insieme a Paola Càsoli, Pier Luigi Bacchini, Jacopo Di Noto, Antonia Gaita, Franco Loi, Roberto Pazzi, Giovanni Ronda e Luigi Vicini.
esiti ultimi
Paola Càsoli torna “solista” nel 2006, quando pubblica la raccolta Cristalli presso le Tipografie Riunite Donati di Parma. Il libro si mostra quale estremo esito dell’essenzialità che caratterizza i componimenti dell’autrice già a partire dalla grafica, scarna ed essenziale (fondata sul grigio, entro cui sale dal basso un rettangolo bianco), e ancor più nel titolo. I Cristalli cui si accenna non saranno che il risultato di uno scavo estremo, che porta via ogni scoria e lascia una materia tersa e concreta. Non Assenza, che aveva un valore di vuoto, ma presenza che mantiene il marcatore dell’assenza invertendo il segno e attribuendogli una positività ulteriore (il percorso sarà poi compiuto con Vento, del 2009, che come oggetto-feticcio aggiunge al valore positivo dei cristalli la mobilità e la forza di un movimento proprio che si attaglia alla volontà dell’autrice). Così, salda e propositiva, Paola Càsoli nella sua nuova raccolta “non pone riserva nello scagliare punte acuminate contro la donna oggetto dentro la tv e fuori nella vita domestica, contro la critica letteraria ormai incapace di cogliere la verità, contro l’abbattimento delle foreste e l’ottundimento delle coscienze. Ma Càsoli chiude il cerchio, il suo non è gusto della denuncia fine a se stessa, poiché alla polemica segue il tema del mito contaminato da una moderna religiosità: Amore, Venere e Marte valgono come il richiamo a una bellezza dimenticata”. Lo scrive Francesca Niccolai, che richiama per il tema mitico questi versi: “Il Tutto, / il Mito / nell’Uno / fondono”. Poi però, oltre al piglio critico verso la materia narrata, c’è un’insenatura di pace a cui appellarsi, la natura, che è “sempre fonte di pace, tanto quanto è ricercata come rifugio, tanto quanto, con moto estemporaneo, il tramonto, l’acqua, il bosco… risuonano all’unisono con l’animo dell’autrice conferendo nuova forza al suo ‘Ostinato bisogno / di esistere’”. Il libro viene presentato alla Fiaccadori di Parma il 23 novembre, con l’intervento di Stefania Provinciali e letture di Mirella Cenni. Il 18 aprile seguente è alla Libreria Internazionale Romagnosi di Piacenza, di nuovo con Stefania Provinciali, con Stefano Fugazza e con l’estensore di questo testo, come si diceva all’inizio. Seguiranno poi, nel 2007, due reading. Sabato 18 giugno presso la Chiesa di Santo Stefano di Colorno. Coordina Isa Guastalla, leggono Rosanna Varoli e Alberto Padovani, suona Enrico Fava e i testi selezionati sono, oltre che di Paola Càsoli, di Pier Luigi Bacchini, Giancarlo Baroni, Guido Cavalli e Antonia Gaita. Il titolo della manifestazione è “Voci poetiche a Parma”. Sabato 20 ottobre, invece, presso la biblioteca di Langhirano vanno di scena solo le liriche di Paola Càsoli e di Antonia Gaita lette da Rosanna Varoli accompagnata alla fisarmonica da Luca Vezzali. E un altro reading arriva nel 2009, a cura della libreria La vecchia talpa di Fidenza..
Si arriva infine a Vento, l’ultima raccolta, pubblicata da Manni nel 2009. Ne ho scritto la prefazione, che si potrà leggere in quella sede, e ho già ricordato in apertura le occasioni pubbliche in cui è stato presentato. Per una di quelle occasioni – quella dell'8 marzo 2010 alla Libreria.Coop di Piacenza – ho scritto e poi letto ad alta voce un intervento, che riporterei qui per poi chiudere, nel tentativo di conservarlo:
Vento, il nuovo libro che raccoglie le liriche di Paola Càsoli, permette di rispondere ad alcune domande che sarebbe bene porsi sempre di fronte alla letteratura e, più in generale, al mestiere di fare libri. O almeno fornisce risposte valide per sé, che se non saranno assolute almeno saranno un indizio da tenere successivamente in considerazione. Le domande in ogni caso sono: potrà un autore costruire un libro che sia in effetti libro mantenendo inalterata la cronologia di composizione delle parti, senza spostamenti utili a servire una struttura che subentra solo tardivamente nel progetto? E ancora prima: è possibile che un autore giuri a se stesso fedeltà nel corso degli anni, facendo di temi e stile delle costanti certe che gli permettono di avere coscienza del suo percorso e di renderlo riconoscibile agli occhi degli altri? Le risposte date da Paola Càsoli con Vento sono entrambe affermative. Paola Càsoli si forma poetessa, si concentra su di sé e cresce in una direzione certa che non prevede salti ma una costante fiducia in quello che sta facendo.
Vento raccoglie dunque sessantacinque testi le cui date di composizione vanno dal 1977 (così è datato il primo, Aspettando Dio) fino a giorni recenti. Ci troviamo di fronte a un caso minoritario ma non escluso dalla nostra storia della letteratura, che ha altri esempi eccellenti di canzonieri in cui i testi sono deposti per lo più secondo cronologia di composizione. Pensiamo all'inizio della lirica in senso moderno, i Canti di Leopardi, in cui i primi due testi, All'Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, sarebbero anche i più antichi composti, nel 1818, se non fosse che l'anno precedente aveva visto la luce Il primo amore, che avrebbe poi occupato la decima posizione. Ma la tendenza all'ordine cronologico c'è, seppure con adeguati raggiustamenti che hanno di volta in volta motivazioni diverse, e così sarà questo un precedente per Paola Càsoli. E un altro esempio che si può richiamare alla mente, esempio di un poeta che per tutta la vita ha scritto progettando le sue raccolte come le ante di un unico polittico dal significativo nome di Canzoniere, è senz'altro Saba, che s'è sentito in obbligo anche di fornirci quello strumento importante che ha per titolo Storia e Cronistoria del Canzoniere. Paola Càsoli dunque appartiene a questa famiglia della fedeltà a se stessi, a questa famiglia del deposito su carta di un vero e proprio diario poetico fatto in privato ma destinato a diventare pubblico, che trova una sua sincerità costruttiva nell'ordine cronologico e nella non reticenza.
L'altra domanda che ci si era posti in apertura riguardava la fedeltà che l'autrice dimostra a se stessa lungo il suo percorso.
Il primo ambito della fedeltà è questo: la fedeltà del sentire. Paola Càsoli si immerge nel mondo, che non è solo il contesto privato degli affetti ma è anche il contesto sociale, e registra sulla superficie della sua sensibilità una risposta emotiva che ponendosi alla base dei versi riceve una formalizzazione e diventa quindi fruibile anche per gli altri. Il risultato è che possiamo a nostra volta viaggiare nel viaggio che Paola Càsoli ha già fatto, sentendoci accolti, mai fuori posto. Un esempio chiaro di questo potrà essere proprio quell'Aspettando Dio che apre la raccolta e che leggiamo nei suoi sette versi:
Aspettando Dio
si incontrano uomini.
L'uomo si è tolto la maschera
e coglie la sua verità.
Non importa se corrisponde
a quella del mondo:
gli altri siamo noi.
Rapportandolo alla data riportata in calce, il 1977, saremo giocoforza costretti a orientare la nostra interpretazione e a credere che si stia registrando la risposta della poetessa a un momento storico di confusione, di apprensione e infine di dolore. Ai primi due versi abbiamo un Dio che è assente, ma che pure si avrà la speranza che esista, se lo si attende; al terzo e al quarto la volontà di camuffarsi perché camuffarsi è proteggersi (il topos della maschera); ai due successivi la divaricazione tra quello che ognuno di noi è, con la propria verità, contrapposta a quella del mondo; e all'ultimo infine una identificazione che ci colpisce a fondo. Siamo infatti incerti se interpretare quel “gli altri siamo noi” dell'ultimo verso come una riconciliazione oppure come una constatazione angosciata, che nello spossessamento ci proietta verso il fuori di noi, un fuori che potrebbe non piacerci. Ecco quindi un esempio di come la poesia di Paola Càsoli sia anche una poesia politica, vale a dire una poesia di riflessione sul consorzio umano, sulle sue frizioni, registrate in rapporto alla propria interiorità e poi rese in pagina.
Il secondo ambito della fedeltà è poi questo: la fedeltà tematica. Vale a dire che Vento è tutto innervato di temi su cui si torna a indagare, segno che lungo gli anni di lavoro non si sono sviluppati interessi momentanei, magari di moda, ma sempre ci si è tenuti a filoni fondanti. È questo davvero un bel segno di fedeltà, a se stessi come alla possibilità di credere che la letteratura abbia a che fare con la ricerca della verità, a maggior ragione perché i temi in questione sono tutti temi fondamentali. Il primo che abbiamo incontrato è proprio il tema di Dio, visto però come assenza (e Assenza era il titolo della raccolta d'esordio di Paola Càsoli, Parma, La Pilotta, 1982, con prefazione di Giuseppe Marchetti e una suite di disegni di Marina Burani collocata al centro dell'impaginato). Questa assenza divina porta di contro a una presenza semantica, una disseminazione di cui registriamo qui qualche campione: si parla di “peccato” al verso 17 in Ho mangiato un cuore, che nei due versi prima aveva rispettivamente “creazione” e “Adamo”. Oppure in Una vuota cornice, verso 17, leggiamo “Demiurgo” constatando così una fuoriuscita dalla tradizione cristiano-cattolica per allargare a una cultura legata alla filosofia antica. Ma è negli ultimi testi della raccolta che il tema di Dio acquista ulteriore spessore. Il quarantaseiesimo testo, Brillio della neve, introduce l'“angelo” non ancora come creatura oltremondana ma come pietra di paragone (leggiamo infatti, vv. 7-9, “la perfezione si mostra / ai nostri occhi / d'angelo.”) e all'altezza del quarantanovesimo testo, Inseguire gli uccelli, si passa al senso proprio, quando ai versi vv. 12-14, gli ultimi della lirica, leggiamo: “Angeli fiammeggianti / angeli osannanti / tutti in mio soccorso”. Se Dio rimane assente, che la distanza sia almeno coperta dalle moltitudini delle creature celesti. Ecco allora che si giustifica il testo cinquantasei, che leggiamo:
La mia consolazione è nel Signore
Egli ha fatto cieli e terra.
La Croce pura esplosione
trampolino lanciato
nel vuoto.
Croce umanità
croce santità
croce valore
croce luce
croce adorazione
croce visione
croce desiderio
croce affanno
croce piacere
croce tutto.
Così, se pure il “Signore” non si palesa, ha comunque il valore positivo di un qualcosa a cui tendere, dando in cambio “consolazione”. La ripetuta anafora che concentra l'attenzione sulla “croce” fa di questo tendere un tendere neotestamentario, volto soprattutto al Figlio più che non al Padre, ed elegge il supplizio – invece che la predicazione o la resurrezione o altro – come motivo su cui riflettere. In Bianche praterie, testo sessantuno, abbiamo ai versi 4-6: “Abbraccio l'universo / nel pieno abbandono / di Dio”, dove “abbandono” è ambiguo, perché non si riesce a decidere tra il valore positivo di un “abbandonarsi a” e quello invece negativo di un “essere abbandonati da”, anche se quest'ultima interpretazione è forse da preferire. E infine al primo verso della penultima lirica tornano gli angeli, con specificazione per gerarchie: “Serafini, Cherubini ci portano in alto”.
Sempre parlando della fedeltà tematica scopriamo che Paola Càsoli riflette lungamente su cos'è e che valore ha la poesia. La comparsa di questo motivo si affaccia con il quinto testo, che ha come incipit proprio la parola “poesia”. Leggiamo:
Poesia,
nelle tue mani,
esistere,
soltanto credere
e affidarmi.
I tre verbi presenti sono tutt'altro che inerti: “esistere”, “credere”, “affidarmi” hanno infatti un contenuto semantico di valore esistenziale e facilmente si orientano nell'alveo di quella ricerca metafisica, spirituale, propriamente cristiana di cui s'è parlato finora. La poesia insomma è, perché no, una risposta umana che ci si può concedere nel mentre dell'attesa.
Tutto dedicato alla poesia stessa è il tredicesimo testo, di cui leggiamo i primi quattro versi: “La mia poesia / non è frammenti / sia pure preziosi, / ma sostanza”. La dichiarazione è forte e la possiamo far dialogare con la storia della nostra letteratura nazionale. Come noto fin a livello manualistico il primo titolo del Canzoniere petrarchesco era infatti Rerum volgarium fragmenta, un titolo che ci dava appunto sia il senso del distanziarsi dalla forma poematica sia quello dell'andare ad abitare quella lingua, il volgare, inteso come espressione alternativa al latino. Ecco allora che nel rifiutare i frammenti, Paola Càsoli dice espressamente che il suo è un canzoniere, che è appunto l'approdo definitorio di Petrarca per il suo libro. Ed ecco allora, si parva licet, che anche Vento sarà la storia di un'anima, ben tenendo presente che come già detto è un'anima che non si rapporta solo ai suoi stretti dintorni ma s'allarga al contesto, e quindi alla società, alla politica e alla storia.
Ancora di marca metapoetica la lirica seguente:
Tutto ha valore
è poesia.
Il quotidiano
che conosciamo
e rinnoviamo.
Segni vitali.
Un testo importante perché ci conferma quanto intuito e già espresso finora, vale a dire che per Paola Càsoli la pratica dei versi coincide con il far cadere sul piano inclinato della sua sensibilità le cose del mondo. E un'ulteriore passo in questo senso lo abbiamo con il testo numero venti, in cui “La poesia / non deve parlare / di sé” ci dice come la necessità, una volta affinata la tecnica, sia proprio quella di guardare al mondo.
Non procediamo oltre in questo e citiamo un ultimo tema, quello del figlio, che di rimando è ovviamente il tema della maternità. È però indagato secondo un preciso punto di vista, perché si istituisce un osservatorio specifico sul figlio nel suo solo esser grande, nel suo farsi uomo e quindi, in certa misura, nel rendersi altro rispetto alla famiglia di origine.
Fa capolino all'ottavo testo, che nei suoi tre versi dice:
Ritrovare
la possanza dell'uomo
che è figlio.
Si tratta di un'immagine scavata fortemente nella pagina, perché grazie all'infrequente sostantivo “possanza” viene convocata una fisicità del corpo maschile che compare così di fronte ai nostri occhi. Un “uomo” che è, tuttavia, “figlio” e che viene ritrovato, segno che un distacco c'è già stato. Un testo commovente è poi il diciannovesimo, che quel distacco appena intuito ce lo racconta: la vicenda è quella della madre che raccoglie i giochi sparsi (“omini / di lego” resi in inarcatura forte tra verso 3 e 4) e stanca per il ripetersi infinito di questo gesto e allo stesso tempo lucida nel sapere che non ha importanza e non lascerà traccia immagina quel che accadrà con il crescere di chi lei stessa ha messo al mondo. Così alla fine “Sarò consunta e debole, / minima esistenza, / madre invecchiata / figlio assente. / Liquide ore / di giorno sciacquante, / trascorrere” (vv. 27-33).
Il terzo ambito della fedeltà, infine, è quello stilistico. La voce di Paola Càsoli è sua e solo sua, sorgiva come potrebbe esserla quella della Dickinson o della Merini. Le poche tracce intertestuali sono “Fresca mattina / dalle rosee dita” (XXXXI, vv. 1-2) che rimanda a Omero e al suo epiteto formulare solitamente riferito all'aurora, c'è un ricordo di Withman forse in “Mi sono fatta un letto / d'erba”, incipit di un testo che sta a metà del libro e infine le “membra / sparse” (XVII, vv. 15-16) in inarcatura che traducono disiecta membra, termine tecnico che indica i brandelli testuali consegnatici dal novero dei secoli laddove non è possibile rintracciare il testo nella sua interezza. Ma queste tracce si perdono, non hanno quasi importanza, e invece ci lasciano una versificazione che se quasi sempre supera la misura della parola-verso lo fa per non andare troppo oltre, intenta a far stagliare i suoi periodi sul bianco della pagina. In questo sarà necessario vedere una vocazione protratta negli anni.
Si citava Leopardi all'inizio e con un motivo recondito. Ci sembra infatti leopardiana la libertà entro la misura che Paola Càsoli si impone nel suo lavoro. Poche rime, di poco più cospicue le assonanze che già si sono registrate nello stendere l'introduzione al libro alla quale quindi si rimanda, in ogni caso una generale impressione di musica data non da un'applicazione basilare delle regole ma da una ricerca legata a una consapevolezza storica che occorre esigere da un poeta nostro contemporaneo.