Debenedetti più grande di Croce, di Giorgio De Rie

Domenica 4 Marzo 2007

Debenedetti più grande di Croce, di Giorgio De Rie

Il miglior tributo di vero apprezzamento all’opera di Giacomo Debendetti che si è letto, fra i tanti celebrativi dei 40 anni dalla morte, è la raccolta di testimonianze pubblicate nel numero monografico della rivista “l’immaginazione” di Manni editori. Tranne qualche rara eccezione non si trovano qui firme altisonanti del mondo universitario, né di quello della critica militante dei giornali più importanti. Si leggono invece racconti di incontri di lettura, spesso nati per caso e diventati poi duraturi, o spunti interpretativi di giovani studiosi su quello che è stato il critico più acuto della nostra letteratura del Novecento, prudentemente (e villanamente) tenuto in disparte dai baroni dell’Università.

Posso portare una testimonianza personale. Giovane assistente di Giovanni Getto ebbi l’occasione di seguire l’ultima clamorosa bocciatura di Debenedetti in un concorso universitario. Allora la procedura era questa. Una Facoltà chiedeva una cattedra e veniva eletta una commissione di cinque membri che doveva esprimere una terna di vincitori. Getto partì da Torino con un trio di nomi forti: con Leone De Castris, portato da Mario Sansone che aveva chiesto per lui la cattedra a Bari, c’era un duo d’eccezione Debenedetti appunto e Sanguineti.
Getto, cattolico e conservatore, aveva stretto un patto con i colleghi di sinistra per questa terna d’alta qualità. Vinsero invece con Leone De Castris, Bárberi Squarotti e Petrucciani, un alto funzionario del Ministero che aveva scritto poche cose: due uomini di potere contro due studiosi di valore. È stato il primo scandalo a cui ho assistito nella mia personale vicenda universitaria. A parte qualsiasi altra considerazione, negare una cattedra a un uomo di sessantasei anni della levatura di Debenedetti, che teneva almeno a un tardivo riconoscimento dell’Accademia, fu una crudeltà, oltre a una prova di cecità intellettuale.
Studioso «senza metodo» e senza «teoria», Debenedetti era una eccezione nel panorama della nostra povera cultura critica, sempre a rimorchio di «griglie» interpretative d’importazione alla moda in cui far stare le opere studiate, anche a rischio di appiattire tutto. Questo essere «eretico» non veniva perdonato a Debenedetti, così come la capacità raffinata di impostare un «racconto critico», leggibile nella sua «assoluta mancanza di gergalità», come si legge ora ne “l’immaginazione”: «La critica come ragione di vita, modo di attuazione dell’esistenza – o, come egli avrebbe detto, del “destino” – non consente gerghi adottati una volta per tutte». «Il critico ha l’obbligo morale di far tacere le insinuazioni perturbatrici della propria autobiografia», scriveva Debenedetti nella prefazione alla prima serie dei suoi Saggi critici (1929).
L’insegnamento era elementare, come semplice era l’altro principio base della sua lettura. Studiare un testo significava per lui «introdurre il coltello nell’ostrica e non soltanto bearsi di guardare la perla. Esplorare un prima del fatto compiuto, un al di qua dell’opera d’arte, misterioso e occulto quanto un al di là. Andare a sorprendere e a capire la musica nel corpo stesso del musico».
Debenedetti rimase fedele a questa legge fondamentale per chi voglia leggere un testo, ascoltandone le ragioni. Quella di entrarvi «dentro» e di far scegliere al testo il modo più giusto di essere interpretato. È un principio, poco praticato dall’Accademia, che fa di Debenedetti il maestro più grande della critica novecentesca: più di Croce, troppo dogmatico nei propri schemi, e più di Renato Serra, troppo umorale nella sua libera lettura. Per lui il saggio interpretativo è avventura della conoscenza, a volte densa di sorprese, perché sa affrontare le vie tortuose di un’opera, senza battere cammini prestabiliti: non è mai un viaggio organizzato che punta a una meta, ma un’esplorazione coraggiosa che mette in conto anche il fallimento.

Giorgio De Rienzo sul ”Corriere della sera” del 4 marzo 2007