Pasolini, missionario senza chiesa, di Giorgio De Rienzo
La rivista «L’immaginazione» dell’editore Manni pubblicherà tra qualche giorno una lunga testimonianza di padre David Maria Turoldo su Pasolini: è uno scritto inedito nella sua integrità. Le cose sono andate così. Il 16 agosto del 1987 Stefano Bottarelli sale all’Abbazia di sant’Egidio per intervistare Turoldo, che trasforma il previsto colloquio in un lungo monologo. Bottarelli lo registra, lo trascrive e invia il dattiloscritto al padre, che lo rilegge, corregge e firma. Il testo che oggi leggiamo indugia all’inizio sulla «grande amicizia» e sulla «reciproca stima» dei due poeti friulani. Ma presto Turoldo punta il discorso sull’ «indole» dell’amico: «È vero che lui si dice ateo, agnostico; è però anche vero che era un missionario, che il suo io è un io totalizzante, coinvolgente…la sua letteratura è la sua vita, e la sua stessa vita un evento letterario. L’io è al centro di tutta la sua storia, di tutto il suo universo: perciò è sempre travolto. Non c’è distinzione tra la sua avventura e se stesso: lui è la sua parola, il suo scritto, il suo annuncio».
Per Turoldo una chiave per rileggere Pasolini è quella religiosa. «Era un missionario e si sentiva missione: aveva un compito, quello di denunciare il male. Ha sempre sognato la liberazione dal peccato, e non poteva che essere peccatore, e grande peccatore. Il senso del “male” in lui è tragico. Ha sempre sognato una chiesa che lo salvasse, pur avendo rinunciato a qualsiasi chiesa», anche a quella «marxista» se, nel Le ceneri di Gramsci, dà il suo «addio» ai «compagni non più compagni». Pasolini «è un arrabbiato perché non può trovare un’autentica chiesa; è un arrabbiato, perciò senza un vero partito. Arrabbiato perché non trova il paese che sogna…E soprattutto arrabbiato con se stesso perché sa di essere lui un essere sbagliato».
Turoldo crede «che questo sia un buon nucleo da cui partire per dare più profonde interpretazioni» di Pasolini, «anima inquieta perché non trova assolutamente il punto folgorante e persuasivo di tutte le cose che cerca»: «Era addirittura l’immagine dell’inquietudine universale: sempre travolto dalla sua carica moralistica. Si dica quello che si vuole, forse, pur nel suo peccare quotidiano, era uno dei più innocenti…Nessuno ha sofferto più di lui la sua condizione, e nessuno ha pagato come lui per essere tale».
nteressante è nella testimonianza di padre Turoldo il confronto tra Pasolini e Montale: «Montale è l’anti-Pasolini per eccellenza, come Pasolini è l’anti-Montale per eccellenza. Io però preferisco un Pasolini a un Montale, nonostante quel che si va celebrando, in consumi di incensi a non finire. Uno è l’indifferenza assoluta e l’altro è il coinvolgimento e la passionalità assoluti». Sono due mondi contrapposti che danno «due possibili letture della cultura italiana». Ma è soprattutto sul rapporto fra cultura e politica che insiste Turoldo, con vena polemica e sferzate non conformiste. «Sul mondo politico italiano, bisognerebbe leggere i suoi articoli apparsi sul Corriere della Sera, dove cercava di portare avanti addirittura un’istruttoria per un processo alla Democrazia Cristiana interessantissimo».
Gli strali vanno anche al trasformismo di tanti intellettuali, da cui Pasolini si è distinto o si sarebbe distinto. «La crisi dell’invasione sovietica dell’Ungheria è stata sconvolgente, una specie di terremoto delle coscienze. E però è stata anche rivelatrice di tutta una situazione ormai in declino e non solo in confronto con il mondo del comunismo reale…Le delusioni che si possono avere nei confronti dei paesi dell’Est, oggi si possono avere anche per i paesi dell’Ovest. La sconvolgenza dell’invasione dell’Ungheria e della Cecoslovacchia può essere pari alla gravità della situazione del Salvador e del Nicaragua, del Guatemala, della Bolivia, del Cile… Ma allora le coscienze erano ancora in grado di meravigliarsi, di scuotersi; ora invece non si “meravigliano” più di nulla. Voglio dire: mentre condivido la rivolta degli intellettuali nei confronti dell’Ungheria, non condivido certamente l’acquiescienza degli intellettuali, degli stessi intellettuali – cosa che non avrebbe mai fatto Pasolini – di fronte all’identica situazione di martirio e di olocausto delle genti dell’Ovest: appunto del Guatemala…Fino a che punto fosse autentica quella rivolta degli intellettuali di fronte all’Ungheria, possiamo ora giudicarlo… Pasolini rimane comunista, rimane un compagno, crede ancora in quella direzione, ha una visione molto più realistica e libera di tutti gli altri intellettuali. Pasolini non si sarebbe mai venduto a questi schieramenti politici nati dopo, che sono di una povertà, di uno squallore e di un pragmatismo unico. È vero che sentiva anche lui il franare delle ideologie, ma non sarebbe mai finito nel pragmatismo».
"Corriere della Sera", 12 settembre 2008