Noi che volevamo cambiare il mondo, di Walter Veltroni
Mentre attraversavo la strada che porta dalla mia stanza in Campidoglio a questa Sala, a un certo punto è squillato il telefonino e mi è apparsa una notizia di agenzia: «Iraq, autobomba che uccide diciotto ragazzini che giocavano a pallone a Ramadi». Ho pensato a quei versi di Cercando una città, il nuovo libro di poesie di Pietro Spataro, che dicono: «non sa la bomba l’indirizzo giusto» e «inerte porta morte». Mi sono venuti in mente quei diciotto bambini che giocavano a pallone, mi è venuto in mente che cosa era la loro vita, quali fossero le loro aspettative, chi avrebbe eventualmente sperato di diventare un grande calciatore, chi sarebbe potuto diventare un fisico nucleare, chi uno scrittore o chi un operaio. E una bomba ha cancellato tutto questo.
Pietro Ingrao ha detto una cosa molto giusta, ed è la sensazione che anch’io ho avuto leggendo il libro, e cioè di un libro drammatico, il racconto di un dramma collettivo. Uno dei suoi versi dice: «Volare è leggerezza ma non è leggero questo tempo, ancora non è leggero». È la sensazione, cioè, di un tempo pesante. È la sensazione della quale noi tutti facciamo una certa fatica a liberarci. Viviamo in un tempo pesante, che ci lascia uno sguardo smarrito di fronte a una certa contemporaneità, a uno sviluppo senza qualità, a una modernità senza anima.
Lo voglio dire come mi viene dal cuore: noi abbiamo fatto gli striscioni, abbiamo stampato i volantini, abbiamo portato le nostre bandiere, abbiamo gridato i nostri slogan, abbiamo passato poche ore a dormire perché volevamo cambiare il mondo, e se ci fermiamo razionalmente e freddamente a pensare, dobbiamo dirci che per una parte ci siamo riusciti. Perché il mondo è cambiato anche grazie a tutto quello che per tanti anni durante tutto un secolo, e forse persino prima, anzi certamente persino prima, è stato fatto. Ma questo è razionale, è perfettamente e terribilmente razionale. Se invece guardiamo nel profondo del nostro cuore, se invece cerchiamo dentro di noi e ci guardiamo intorno, vediamo tante cose che non avremmo voluto e questo ci fa del male. Perché è vero che alcune cose sono cambiate come volevamo, che tante ingiustizie non ci sono più, che tanti diritti sono stati acquisiti, che tante dittature sono state cancellate. Ci accompagna anche, però, una sensazione di smarrimento nel guardare certe cose del mondo che ci appaiono impensabili. Quando vedo che negli Stati Uniti ha un grande successo un sito che vende dei reggiseni luminosi che si accendono e si spengono, oppure quando vedo che ha grande successo, con tutto il rispetto, uno psicologo per cani, o quando vedo il delirio di frivolezza che ci attraversa e metto a fronte tutto questo con le condizioni umane che non solo gli occhi della mente ma, nel mio caso come nel caso di tanti altri, anche con gli occhi degli occhi hanno visto, rimango colpito. Rimango colpito se lo metto a confronto con i diciotto ragazzini che muoiono a Ramadi o con quelli che oggi stanno morendo perché nessuno gli dà una ciotola di riso.
Quello è un mondo che non ci può piacere, almeno a noi che facevamo gli striscioni, stampavamo i volantini, gridavamo gli slogan e volevamo cambiare il mondo e forse un po’ l’abbiamo fatto, e però non ci basta. E ci fa arrabbiare, ci dà dolore quello che non siamo riusciti a cambiare o forse quello che ci è persino cambiato contro. Allora il libro di Pietro Spataro è secondo me tutto questo. E alla fine pur essendo, come giustamente è stato detto, un libro drammatico, è anche un libro che ha un segno di speranza. Perché è il libro di uno che non smette di cercare, di uno che cade e si rialza, di uno che non ha voglia di interrompere il viaggio e che pensa ci sia ancora d fare. E finché si pensa che c’è ancora da fare per ciascuno di noi individualmente e collettivamente, allora forse il futuro può essere meno cupo di quanto razionalmente ci possa apparire.
Il testo è tratto dall’intervento di Walter Veltroni durante la presentazione in Campidoglio del libro di Pietro Spataro Cerando una città ed è pubblicato su "L'Unità" del 3 marzo 2007