Anonimo povero

Anonimo povero

copertina
anno
2008
Argomento
Collana
Categoria
pagine
432
isbn
978-88-6266-054-9
20,90 €
Titolo
Anonimo povero
Prezzo
22,00 €
ISBN
978-88-6266-054-9
Una carriera di anonimo povero tra tante simili e contrarie in un’Italia che cambia pelle, in un grande affresco dal 1968 a oggi, attraverso lo scorrere di cinque Codici (Pappus, Graccus, Venus, Valdo Vaticano, Anguipedes). Una carica di forte e visionaria ironia è viatico nei meandri del mondo contemporaneo. La scrittura è sorprendente, ricca e multiforme, capace di appassionare e sconvolgere il lettore.

 

Lia Tosi è studiosa di lingua e cultura russa. Ha al suo attivo la traduzione di un diario del disastro nucleare di Černobyl (edito da La Meridiana), due libri di racconti, due romanzi. Ha curato, tradotto e commentato anche Osip Mandelštam.
 

 

INCIPIT

Cencio
 

«Lei è l’operaio Cencio di questa casa?» gli disse il tipo losco cui aveva aperto l’uscio, e intanto gli porgeva del materiale a stampa, santini, libretti illustrati… «Lo è, lo capisco… si liberi, liberarsi si può…»
Cencio gli sbatté in faccia la porta a quella parola, la porta in faccia sbatté a quel tipo, infido, disoccupato sicuramente, che aveva bisogno come del pane del nome e del posto di Cencio, come del pane, come dell’aria, e se Cencio avesse ceduto, sedotto, si sarebbe insediato al posto suo, Cencio abolito, cassato. Ma questo Cencio che era arrivato prima, qui stava, qui radici aveva, qui gli era stato detto: tranquillo, il nostro operaio Cencio sei tu, detto dai suoi padroni, i grandi, i bravi. Come no, borbottava Cencio, lo disprezza lui, come no! liberati, mi dice, ci sputa sopra alla mia posizione, ma la vuole, è in fila lui per entrarci lui. Ed io fesso ci casco, e butto via un posto con tanto di padrone possidente! per lui!
«Io sono Cencio! Lei si cerchi qualcun altro da soppiantare!» urlò a quello che grattava ancora di là dalla porta come fosse stato cane (e forse faceva il cane di strada per sopravvivere). Allora si sentì l’altro guaire, andar via uggiolando. Tutto ciò lo fece sentir superiore, superiore e protetto là dentro, dentro! superiore su quanti si aggiravano guaendo al di là, di fuori… Tuttavia una stretta involontaria al cuore, eco all’uggiolio esterno da dentro di lui, un succo di roba indefinita… Guai! Non era permesso. Non era certamente permesso anche se mai era stato esplicitamente proibito; ma non era stato mai esplicitamene proibito perché nemmeno sospettato possibile, nemmeno pallidamente compreso nel campo delle operazioni a sua disposizione. I signori non prevedevano tra le sue mansioni che lui potesse risvegliare in sé tali indefinitezze, richiami di un lontano qualcosa, come voci di sconosciuti animali… via, vade retro. Compito suo essere il più possibile perfetto nel suo stato, rispettare il patto che lo faceva vivo. O prendere o lasciare. Lasciare mai. Era un’immensa fortuna essere stato ammesso. Dove? Domanda che gli insorgeva a volte. Dove mi hanno ammesso, di chi, di chi sono? Ma come dove! lì, in quella potente trama di interessi e piani. Che diamine.
Avessero pure le loro strutture di categoria, di ricreazione, di quartiere, di caseggiato, i carabinieri, la guardia di finanza. Tutta roba apparente, effimera, fumo negli occhi. Questa organizzazione sua… oh, questa organizzazione sua… è ciò che sta dietro a tutto ciò che non si vede e si sa che c’è, ciò che non si sa cosa sia ma si sa che esiste.
Di quanti infami camminavano sui marciapiedi o andavano in autobus, di quanti guidavano macchine puzzone, di quanti infestavano uffici e scuole, fabbriche e ospedali, non era più inferiore. Facessero largo se passava lui, passava lui che apparteneva a loro! (anche se in realtà non usciva mai, da anni non usciva di casa, e fuori non sapeva più se Roma c’era o non c’era). Fortuna immensa essere stato ammesso, perché da lì, da quel posto di Cencio, volendo, si poteva riiniziare un avanzamento, verso un similare d’evoluzione; come sottoforma; ma sempre agganciata a uomini veri, i veri, i forti, i bravi. Siano lodati. Lodati siano i signori che ti danno il posto d’operaio Cencio, che durino, che prosperino, per conservarti a lungo.
La casa dei suoi signori, il signor Bianchi e il signor Malebranci, era un palazzo antico in via Principessa Clotilde. Anzi era una fetta di palazzo, quattro stanze disposte una sull’altra che da fuori potevano essere attribuite all’edificio che le stringeva da sinistra o a quello che le stringeva da destra. Il colore consunto della facciata poteva far credere ad un’appendice stinta sia dell’uno che dell’altro, e ingresso di servizio di uno dei due pareva il portoncino vecchissimo. Il numero civico mancava.
L’interno non splendeva per pulizia. Nell’entrata c’era un attaccapanni ingombro di cappotti e cappelli di tutte le fogge, d’epoche diverse, molti passati di moda da decenni, decrepiti da sembrare più costumi teatrali che capi d’abbigliamento quotidiano. Dove li avranno presi, s’era chiesto appena arrivato Cencio, pur nella consapevolezza di non avere diritto a curiosità. E proprio per non essere spinto troppo in là nell’abuso, s’era subito dato risposta: saranno collezionisti.
Una scala di legno larga e bella portava di sopra, dove ad ogni piano c’era una sola grande stanza: al primo la cucina, al secondo il salotto, coi mobili coperti e quasi mai usato, al terzo la camera del signor Bianchi, al quarto quella di Malebranci, in cima il soffittino di Cencio.
In cucina vecchi tavoli e credenze tinte di bianco. Dentro le credenze uno strano vasellame, strane stoviglie, tazze di pregevole fattura, ognuna diversa dall’altra, tutte con una patina opaca che puzzava di vita, d’anima depositata. Lì in cucina imparò Cencio a riconoscere puzzo di patina d’anima. E niente come le tazze e i bricchi della prima colazione del mattino, soprattutto le tazze, trattiene l’alito interno dei corpi, un fiato di sogni e dolori che all’uscir del respiro, quando le labbra e la ceramica o la porcellana si toccano, e dalla bocca transita per l’interno in qualità di latte l’esterno e qualità o specifico di altri animali si trasferisce all’umano, è allora all’uscir del respiro e all’entrare del latte dall’esterno che qualcosa di estremamente sottile e intimo acquista una qualità appena più pesante in certe sue parti (e già è intendiamoci una particola di uno sconosciuto tutto, per dire come si sbriciola e dissipa la cosa sottile impercettibilmente negli anni, nell’inconsapevolezza piena del suo portatore il più delle volte, il quale anche se ne è un po’ consapevole qualche volta, più che opporre una terribile nostalgia per l’inarrestabile flusso altro non può) e per questa sua pesantezza estremamente leggera si posa sulla parete della tazza o del bicchiere, o del cucchiaio, la quale posatura non la rende certo visibile né subito la rivela all’olfatto. È soltanto l’uso continuo, costante e prolungato delle medesime tazze da parte di una o più poche persone che a queste tazze darà la patina opaca di cui sa Cencio, e darà a queste tazze l’eco inerte, tuttavia inerte, non illudiamoci che ciò serva a una conservazione, l’eco inerte e illeggibile di una o più vite che vi abbiano respirato e attinto, e che per quanto illeggibile e muta sarà in grado di inserirsi a trasmettere nella catena del silenzio che chiama… Dunque se uno ci avesse pensato avrebbe conservato le stoviglie dell’infanzia, le belle grandi tazze che la nonna riempiva d’un latte speciale, portato la sera prima appena munto dal contadino che abitava al limite di città e campagna, schiumoso, dove mescolandosi giorno a giorno i fiati di famiglia risultava una patina collettiva, una materia unificata, amalgama di una minuscola comunità affettiva. E guai a quanti facendo colazione da anni al bar non sono più neanche in questo rintracciabili, e non che in questo siano rintracciabili come individualità o storie, non si deve annettere alla patina valori che non sostiene, e tuttavia come patina, da soli o insieme ai familiari, come patina si è pur silenzio che chiama. Ma forse, se si fosse sempre andati allo stesso bar, una qualche patina anche sulle tazze da bar dovrà pur formarsi, meno personale, con una tragicità peggiore, uniti agli altri avventori, a occasionali avventori in un uso non intrecciato ad affetto in una cornice di senso, risultato d’una sommatoria di presenze oscure l’una all’altra, un’antologia di frammenti con quel terribile comun denominatore della mortalità, del peso della disarticolazione dell’esistenza…
Piatti, moltissimi, uno diverso dall’altro, preziosi e meno, madreperlati, di porcellana trasparente, coi bordi solcati di tralci di fiordaliso, o cerchiati d’oro, o con bocci di rose impressi sul fondo, o di quelli semplici, col righetto verde attorno all’orlo. Nei bicchieri un’incredibile varietà di forme, e forchette cucchiai coltelli d’argento, nessuno con un fratello, tutti provenienti da lontani serviti. Tutti con la loro anima indelebile di opaco. E qualche cucchiaino d’argento, qualche bicchiere da cucina, una o due tazzine sbreccate da caffè, pareva a Cencio odorassero d’una casa non ancora sbiadita dalla memoria, di certi zii o cugini romani oltrepassati, ma non sapeva se suoi o di qualcuno che aveva conosciuto. Vederne quei pochissimi resti gli mescolava opposte reazioni, alcune perfino che esulavano dal campo programmato del suo esperire, ma se ne fregava perché aveva notato che certe sfumature sfuggivano alle autorità, non vi arrivavano i loro sensori di controllo, e anzi era un piacere andargli in tasca. Su quei pochissimi resti si sentiva relitto della civiltà cancellata di quella casa dalla fisionomia assai incerta, e i due zii o cugini, suoi o di altri, sfocati anch’essi, senza faccia, ma gli balenavano a pelo dell’oblio, o su una linea di frontiera fra uno spessore sottile di coscienza e la profondità della perdita, ad emergere talora con qualche tratto della figura, non ancora ben affondati… Allora era sbattuto dalla nostalgia allo sgomento, alla più consona soddisfazione del sopravvissuto, del vivo, non andato ancora a morto.

 

 

Questo libro mi ha dato la sensazione di entrare in una grande metafora della nostra esistenza. Lo straordinario intrigo delle vicende, la sovrapposizione di piani e di rimandi ad epoche che si intrecciano con la presente solo attraverso misteriosi richiami, mi danno la sensazione di una straordinaria commedia scritta per i contemporanei.
L'
Anonimo povero è una corale scesa in campo nell'autorappresentazione della tragicommedia della situazione umana.

 
Pietro Barcellona