La poesia ha un'andatura simile al trotto di Varenne, di Andrea Casoli
Ho visto perdere Varenne s’intitola, sorprendentemente, il nuovo libro di poesie di Alberto Bertoni. Il titolo si riferisce alla passione per le corse di cavalli, a cui è dedicata la prima sezione della raccolta, costituita da una prosa straordinaria, in cui l’autore «tenta di raccontare una mania», nata fin dall’infanzia, continuata nell’adolescenza e anche nella giovinezza, ai tempi di Lettere, nella Bologna del ’77: «Per di più, la passione ippica (e anche il trip poetico: dominavano piuttosto politica, sociologia e critica, quegli anni lì) veniva considerata una deriva dannunziana molto di destra, mentre i nostri cuori battevano a sinistra». Una passione che poteva impegnare i fine settimana, per tutto l’arco degli studi, «tanto Ezio Raimondi faceva lezione il lunedì, martedì e mercoledì e dunque non si creò nessun conflitto di interessi fra ippica e poesia». Stilos ha intervistato Bertoni.
Apri parlando del «ritmo implacabile e costante fino all’ossessione del trotto di Varenne (cioè della forma profonda del suo andare e del suo “dire”)», ipotizzi un’«identità profonda tra l’esperienza della poesia e quella dell’ippica»: in cosa consiste?
Il trotto è un’andatura insieme simmetrica e innaturale, nel cavallo da corsa: un po’ come quella della poesia rispetto al linguaggio comune. Il rapporto tra la poesia e l’ippica non è altro, nella sua origine, che l’insorgere di una nevrosi privata, l’intreccio di due passioni sbocciate più o meno contemporaneamente in me dodicenne, verso il 1967. In realtà, se ci penso meglio e provo a trarre un piccolo bilancio, questo rapporto si è poi sviluppato concretamente su due piani: uno è proprio quello tecnico-ritmico; l’altro si lega invece al tempo di svolgimento di una corsa (circa due minuti), che coincide più o meno con il tempo di lettura di una poesia di media lunghezza e che condivide con questo il senso di un’esperienza concentrata e drammatizzata, potenziata e dinamica, un tempo-evento.
Associ l’aver veduto perdere Varenne, ammettendone il fuoriclasse, al riconoscimento del talento poetico: in che senso?
Di Varenne ho sentito parlare una prima volta il giorno che ha debuttato, nell’aprile del ’98, a Bologna, alla prima corsa. Per caso, era giovedì, mi sono affacciato all’ippodromo –dopo una lunghissima sessione d’esami– verso la quarta. E qualcuno, un cinico profondamente ammirato, mi avvisò che dalla pista si era appena sprigionato un bagliore mai visto prima: infatti, dopo essere stato squalificato per rottura prolungata e fermato dal suo driver, il Varenne puledro aveva sua sponte ripreso e superato tutti gli altri cavalli, nel giro di 150 metri sì e no. Tre mesi dopo, Varenne lo ammirai di persona a San Siro, in un Gran premio, outsider a quindici contro uno. Arrivò secondo, questione di centimetri dal primo: chi lo guidava non aveva creduto fino in fondo nelle sue possibilità di vittoria. Mi arricchii (si fa per dire) con l’accoppiata e la trio, perché mi ero ricordato di quel debutto di aprile occhieggiato attraverso le parole di un amico. Tutto questo, secondo me, ha molto a che fare con l’insorgere del talento poetico, con la difficoltà di riconoscerlo, di inquadrarlo e di imporlo all’attenzione, ma anche con la gratificazione che questo ti regala, quando un certo occhio clinico consente di riconoscere un campione, di scommetterci su.
Poni come exergo al libro questa fra di Kafka: «Lo scrivere mi si nega. Di qui il progetto delle indagini autobiografiche. Non biografia, bensì indagine ereperimento di componenti il più possibile minute». Nelle tue poesie è frequente il resoconto biografico. Che valenza attribuisci ad esso?
Dopo la rivoluzione romantica e quella surrealista, all’autobiografia non si sfugge, tantomeno oggi che tutte le tecniche, tutti gli stili, tutti gli atteggiamenti verso la tradizione sono consentiti: ma occorre il graffio (o la polvere) del vissuto, per avvalorare una qualsivoglia rappresentazione simbolica del reale. L’essenziale è che la poesia non sia mai autocelebrativa e non pretenda di ricomporre in unità posticcia i tratti slabbrati e i vuoti dell’esperienza umana: da qui, l’invito imprescindibile di Kafka a muovere da componenti il più possibile minute.
Kafka s’intitola anche la poesia che apre la sezione, breve e intensissima, di liriche in dialetto modenese: qual è il tuo rapporto con la poesia dialettale?
Il mio rapporto con il dialetto modenese di città (quello dei miei nonni materni) è nato per una rivalsa e una sfida: la rivalsa tutta generazionale di scrivere una lingua puramente orale e anacronistica; e la sfida (persa in partenza) con uno dei poeti più bravi del nostro tempo, il sassolese Emilio Rentocchini, che è anche un amico vero e uno di quelli con cui parlo più spesso di poesia, fingendo altro. Le mie poesie appena decenti in modenese, però, si contano sulle dita di una sola mano.
Le sei sezioni del libro hanno caratteristiche molto diverse: c’è una prosa narrativa, c’è una sezione di poesie in dialetto, una sezione di traduzioni e imitazioni dall’inglese, una è strutturata in forma di diario… qual è il progetto, nel senso anceschiano del termine, di questo tuo libro?
A Ho visto perdere Varenne non ho creduto di potere imporre un’unità dall’esterno, com’era invece accaduto per i miei libri precedenti. Non c’è stato progetto a priori, in una parola: l’editore Manni, che stimo molto, mi ha chiesto un volumetto di versi (fatto rarissimo, nella situazione attuale) e io gli ho dato quelli che avevo, mettendo insieme una prosa, traduzioni, qualche poesia d’amore e facendoli confluire in quell’acceleratore di esperienza che è la sezione ultima, vera coscienza interna al testo, il “Diario di Alzheimer”.
Cosa intendi quando dici che il tempo della parola va misurato su quello del respiro?
La poesia è sovrapposizione, contaminazione, interazione di due respiri, quello dello scrittore e quello del lettore. L’atto del leggere è in sé uno dei più etici e dei più difficoltosi che si possano oggi compiere.