Intervista all'autore di Carla Colledan
Alberto Rollo, ventidue anni in Feltrinelli come direttore letterario, dall’1 gennaio 2017 è direttore editoriale in Baldini & Castoldi. Ha tradotto Will Self e Jonathan Coe (per dirne due) e lavorato con i più grandi nomi della letteratura contemporanea, è autore di saggi ma stavolta ha deciso di raccontarci qualcosa di sé. Lo ha fatto con un memoir pubblicato da Manni. Dopo averla letta, ci è venuta la voglia di fargli qualche domanda per approfondire. E lui, gentilissimo, ci ha risposto a stretto giro di mail. La foto è di Adolfo Frediani.
Un’educazione milanese è il tuo romanzo d’esordio ed è, o almeno questo è sembrato a me, una sorta di omaggio alla famiglia, agli amici della tua generazione e alla città che hanno fatto di te quello che sei. Dopo tanto lavoro a contatto con dei grandi autori, da dove è venuta la spinta a scrivere?
Questo libro è un vecchio progetto, e una antica ossessione. Scrivere della mia città, e più in generale del rapporto con la grande città, come storia formativa, come bildungsroman. Il primo nucleo risale al 1995 e fu pubblicato sulla rivista “Linea d’ombra”. Ho sempre sentito il peso che il teatro metropolitano in cui mi sono mosso ha avuto su di me. E d’altro canto non volevo “capire”, quanto piuttosto raccontare. Ho dovuto e ho voluto aspettare, perché non ho mai avuto una precisa intenzione di “scrivere”: ho aspettato la spinta decisiva, e questa spinta non è arrivata dal mio lavoro (semmai il mio lavoro mi ha sempre tenuto lontano dalla scrittura creativa) ma da una lettura fondamentale, i romanzi Il posto e Gli anni di Annie Ernaux pubblicati dalla casa editrice L’Orma. Lì ho percepito la possibilità di muoversi lungo l’asse di una memoria orizzontale, capace di disporre gli eventi privati e gli eventi storici su una stessa linea d’orizzonte senza le tentazioni della memoria verticale (quella proustiana, per intenderci). Annie Ernaux ha rivoluzionato il rapporto fra tempo e racconto, fra autobiografia e storia nazionale.
Cosa rimane oggi di quella Milano che ti ha voluto? Penso a quella piazza Prealpi che oggi insieme ai vecchi abitanti ospita una nutrita rappresentanza di extracomunitari milanesizzati, credi che l’educazione milanese (rapportata ai tempi) sia ancora qualcosa che viene in qualche misura dalla città stessa?
Forse non resta nulla. Per questo ho sentito la necessità di evocarla. Ma rimane vivissima l’educazione che una città può dare, la città intesa come forma architettonica e come spirito, come “state of mind”. E l’apprendimento è tanto più fondamentale quanto più passa attraverso l’identità di classe. Ora sono quasi invisibili i confini di classe (borghesia, piccola borghesia, proletariato, sottoproletariato) ma sono evidentissimi quelli fra chi ha e chi non ha o ha poco. Fra residenti e immigrati. L’educazione milanese di un immigrato la deve scrivere un immigrato, e in parte questo processo di consapevolizzazione (linguistica e culturale) sta avvenendo. Io sono convinto che gran parte del tessuto connettivo di Milano sia sano, e per quel tessuto connettivo possa passare una visione progressiva. Faticosa da mettere a fuoco. Difficile. Ma possibile.
Restiamo in città, leggendo il tuo libro si trova una Milano in cui tutto sommato, sia pure con le dovute divisioni e identità di quartiere, facendo forse eccezione per qualche via e qualche piazza intorno al Duomo, non c’è una divisione netta fra quartieri operai e borghesi. Oggi siamo addirittura al punto in cui ci sono distinzioni fra una via e le laterali. Secondo te da cosa dipende?
Beh in verità, soprattutto nella prima parte, la divisione esiste eccome. Io sono cresciuto con l’estrema consapevolezza di appartenere a una area sociale precisa, con la sua identità, con i suoi ideali, con le sue tensioni, con la sua cultura. Certi amici cresciuti dentro i confini borghesi fanno fatica a comprendere come potesse essere autosufficiente l’esistenza sociale e culturale del proletariato milanese. Ma era proprio così. Poi quella compattezza si è rotta, come si è rotta quella delle classi più agiate. Una rottura che corrisponde alla nascita sociale della giovinezza che ha cercato, per una manciata di anni, di creare un nuovo futuro. È stato un periodo esaltante. Cerco di raccontare anche quello, quel venire “a riva di una memoria nuova”, come diceva Paul Eluard. Ho rivisto gli anni compresi fra il 1967 e il 1975 non in un’ottica sociologica: cito episodi, personaggi, accadimenti. L’attuale distinzione che menzioni è altra vicenda. Si chiama in verità “confusione”, caos sociale. Che dipende dall’incertezza del lavoro, dal formicolante razzismo, dalla scarsa visione prospettica di politici e amministratori. Ma proprio perciò diventa tanto più interessante partecipare ora alla vita della città, individuare nuove forme di comunità, e soprattutto nuove modalità di integrazione. È un processo che va accelerato.
Il linguaggio usato nella stesura del romanzo, permettimi di chiamarlo così, è assolutamente scevro da influenze riconoscibili, pulito, chiaro e preciso, ma la domanda sorge spontanea: c’è stato qualcuno fra i tanti autori con cui hai lavorato a cui hai “rubato” qualcosa per sviluppare la tua cifra narrativa?
Ripeto: il mio lavoro non c’entra. Ci sono scrittori che amo come Maggiani e i grandi assenti Tabucchi e Rea, ma non ho avvertito quella che Harold Bloom chiama “malattia dell’influenza” . Ho già detto di Annie Ernaux, che ha anche riflettuto sulla trasparenza linguistica. Io ho cercato di essere linguisticamente aderente a quel che venivo raccontando, senza lasciarmi tentare dalla letteratura. E tuttavia posso dire che semmai ho dentro di me la lingua di certi poeti italiani: Sereni e Montale soprattutto, ma anche Fortini, e più recentemente Magrelli. E un meraviglioso poeta marchigiano che si chiama Adelelmo Ruggieri. Sentite che aderenza in questi versi che evocano lo scendere per una strada invernale, dopo tanto tempo: “Velocemente percorro / questa bella discesa / con il mio sentire / che sale”.
La scelta di scrivere un’autobiografia è stata dettata da un bisogno di fare il punto, dalla voglia di condividere il percorso fatto o un atto d’amore verso una città che da quanto scrivi è l’unica in cui potresti vivere…
Un’educazione milanese è certamente un’opera autobiografica, ma è stato inevitabile imbrogliare le carte, confondere nomi, mescolare scene vissute, e così accanto alla cristallina evocazione di personaggi reali c’è anche il tentativo di cogliere lo sciamare del tempo, degli accadimenti, secondo regole che non appartengono al rigore dell’autobiografia che comunque vuol sempre “dimostrare” una verità. Questo processo dimostrativo non è parte di Un’educazione milanese. Certamente avevo in mente un tributo ai miei genitori e alla mia città. E a un amico, morto giovanissimo, con il quale avrei voluto, per affinità e tormenti intellettuali, condividere il tempo a venire. Lui è rimasto, per me, “l’architetto", quello che aveva in mente una città nuova, tutta da fare, e forse che aveva in mente anche una vita tutta da fare. L’utopia, allora, era molto legata alle forme dell’architettura e ai piani urbanistici. Oggi sono di fronte a una Milano piena di forme nuove. Era questa la città che volevamo? Non lo so. Ma certamente qualcosa è accaduto.