Una sorgente inesauribile di memorie, di Gerardo Trisolino
Alda Merini è la poetessa oggi più corteggiata dagli editori. Anche per una ragione plausibile: è una sorgente inesauribile di memorie, di scrittura, di parole, di poesia. Un flusso magmatico di ricordi, un pozzo senza fondo di esperienze e amicizie. Una fluvialità lirica.
Anche con l’editorie Manni ha intrapreso da anni un rapporto affettuoso e proficuo, testimoniato dai libri pubblicati negli ultimi anni: da La poesia luogo del nulla del 1999 a Il maglio del poeta del 2002 a Sono nata il ventuno a primavera del 2005. A questo elenco deve ora aggiungersi, fresco di stampa, Canto Milano. La struttura è quella ormai collaudata della conversazione, alternata a testi in prosa e in versi, ora editi ora inediti, e a suggestive fotografie della poetessa.
Ma, si sa, i rapporti della Merini con il Salento sono di vecchia data. Assai spesso nei suoi interventi Taranto è la città più citata insieme a Milano, come testimoniano anche le pagine di questo libro di memorie, che s’apre proprio con il ricordo di Michele Pierri: “Sono mancata da Milano cinque anni. Ero a Taranto da Michele Pierri, un affascinante medico e poeta di Taranto, già anziano, che ho corteggiato per quattro anni. Per lui mi sono battuta, o meglio, contro di lui mi sono battuta, perché non voleva introdurmi nella sua casa, nel suo ambiente. Io, una donna del Nord, dal passato turbolento e la sigaretta in una bocca ormai senza denti”.
La convivenza con il “Pierri divino… condottiero di nostalgia” non è stata però solo un fugace e conflittuale passaggio esistenziale. È stata qualcosa di più, come la poetessa ora confessa: “Ho amato molto Pierri. Lo conoscevo già prima del matrimonio. Avevo letto le sue poesie e me ne sono innamorata. Avevo una grande ammirazione per lui e per la sua vicenda. Poi, io sono stata rinchiusa in manicomio e lui s’è sposato…
L’ho amato come poeta e come uomo, vivace anche sessualmente nonostante l’età…”. Ecco il timbro dell’impertinenza e dell’impudicizia della Merini: quella confessione che ignora i confini dell’intimità. Ma la poetessa milanese è così per natura: ciò che per altri è motivo di scandalo e di sconvenienza morale, per lei rientra nell’ordine naturale delle cose. Non è raro, infatti, imbattersi in versi in cui il misticismo si intrinseca con la sessualità.
Il pregio che più le riconosciamo è aver eliminato il filtro (spesso puramente convenzionale e ipocrita) tra il dicibile e l’indicibile, la convenienza e la sconvenienza, il privato e il pubblico. Lo scandalo è una categoria morale che non appartiene alla Merini. Lo scandalo è spesso il paravento di tante ipocrisie. Vero scandalo è stato semmai la sua decennale via crucis nel manicomio e la maternità negata, cose di cui continua a portare le stimmate: “Non c’è notte che non sogni i letti, le chiavi, le serrature del manicomio”.
Nell’altalena sospesa tra allucinazioni e lucidità di pensiero sta la grandezza di questa piccola-grande donna, le cui lacerazioni interiori producono le contraddizioni stesse del suo carattere e della sua scrittura, che oscilla tra la solarità di ceri umili e fieri ricordi giovanili (la vecchia Milano dei Navigli, il borgo delle lavandaie e delle osterie) e la cupezza infernale di certi incubi notturni.
La disinvoltura con cui la poetessa passa da un argomento all’altro è dettata da quello “stream of consciounsness” che produce isole di ricordi in cui dolcezza e agrore sono i risvolti della stessa medaglia. Come dire che nella sua anima convivono angeli e demoni.