Un libro aureo e pugliese, di Alessandro Leogrande
A poche settimane dalla sua scomparsa, l’editore salentino Manni pubblica una raccolta di versi di Alda Merini, Come polvere o vento. È un libretto aureo, pieno di illuminazioni poetiche fulminanti: come scrive Giulio Ferroni nell’introduzione: «la su poesia sfugge a ogni definizione», è «un dono divino caduto nella banalità del presente». Ma Come polvere o vento è anche un libro «pugliese», per almeno due motivi.
Il primo è che raccoglie liriche inviate dalla stessa autrice a Manni perché venissero pubblicate. Il secondo è che si fa costante riferimento al suo periodo tarantino. La Merini, che vedova di Ettore Carniti sposò il poeta tarantino Michele Pierri (di trent’anni più grande di lei), visse nella città dei due mari tra il 1983 e il 1986. Furono anni inizialmente felici, dopo un lungo periodo di sofferenza, solitudine e povertà, in cui ultimò alcune delle sue opere più importanti: Le satire della Ripa, La gazza ladra, L’altra verità. Per la Merini Taranto è un anti-Milano, le cui viscere popolari non sono però dissimili dal popolo marginale dei navigli, il suo popolo. Tuttavia la parentesi tarantina si concluderà nel dolore e con versi amari. Bisognosa di cure psichiatriche, fu ricoverata per un lungo periodo nel manicomio di Taranto, dove per gran parte della giornata era costretta a stare a letto. Da quello squallido internamento, uscì nel luglio dell’86 per far ritorno al Nord. Il rapporto con Taranto, fatto di amore e affetto, si tinse così di disperazione, come lamenta in una delle poesie: «tutti hanno buttato la loro manciata di fango / sui miei poveri piedi crocifissi, / soltanto perché chiedevo / hanno pensato alla speculazione / e perciò Dio che io giaccia morta / chiusa dentro i miei limiti profondi!».
L’insuperabile capacità di versificare l’internamento psichiatrico, esperito sul proprio corpo, torna anche in un’altra struggente poesia della raccolta: «quando ci mettevano un cappio al collo / e ci buttavano sulle brandine ignude / in mezzo a cocci di orrende bottiglie / per favorire l’autoannientamento; era in quel momento che sulle fronti madide / compariva il sudore degli orti sacri / degli orti innominati degli ulivi».
Come polvere o vento, che raccoglie poesie scritte tra il 1984 e il 1987, tra il soggiorno a Taranto e il ritorno a Milano, si compone di cinque parti. Nella prima, Satire e poesie, sono raccolte alcune delle Satire della Ripa. La «ripa» è il bordo del Naviglio, e quello che la Merini narra è letteralmente un mondo relegato ai margini, fatto di gente umile, prostitute, ubriaconi, osti, immigrati meridionali, sottoproletari. Una Milano irredenta, di cui la Merini è stata l’ultimo cantore prima della grande mutazione.
Nella sezione Antologia Perriana sono raccolti invece diciannove componimenti che appartengono al periodo tarantino. Vi compaiono i figli e i nipoti del marito Pierri, ritratti - come dice Ferroni – nello svolgersi della vita quotidiana. Nel Carteggio invece sono presentate tre poesie indirizzate all’«amato» Pierri insieme a tre risposte in versi dell’autore tarantino. Nella sezione Come polvere o vento vi sono alcune pagine composte tra l’86 e l’87, tra cui quella che dà il titolo alla raccolta, e che rivela appieno il carattere necessario che ha assunto per lei l’arte poetica: «se la mia poesia mi abbandonasse / come polvere o vento, / se io non potessi più cantare, / come polvere o vento, / io cadrei a terra sconfitta / trafitta forse come la farfalla».
La Merini, una donna che ha sofferto moltissimo, è riuscita a restituire costantemente il mondo e i propri affanni attraverso la poesia, fino a vedere in questa l’unica arma da opporre alla dissoluzione, propria e del mondo stesso. Come tutti i grandi poeti, ogni angolo della sua vita non può essere disgiunto dalla sua opera, neanche nei momenti più antipoetici (e apparentemente ilari) che l’hanno resa nota al grande pubblico, come le sue apparizioni televisive al Chiambretti Night, negli anni più quieti della vecchiaia. Anche le Quattro prose che chiudono il volume di Manni, ad esempio, più che esercizio di «poema in prosa», potrebbero definirsi come testi allucinati e burrascosi, in cui frequente è l’esplosione poetica.
Scoperta e pubblicata giovanissima, nei primi anni Cinquanta, dal critico letterario Giacinto Spagnoletti (per i corsi e ricorsi storici, anch’egli tarantino), la Merini non ha mai smesso di scrivere. Ci ha lasciato una produzione sterminata, eclettica, ampiamente disseminata, che spazia dalla riflessione mistica all’amore che strappa i capelli, dalla pena del sopravvivere all’incontro con la vita più umile, fino al mescolarsi con le altre arti (da non sottovalutare, ad esempio, la sua vicinanza con molti dei nostri cantautori). Il suo capolavoro rimane forse La Terra Santa, in cui ha raccontato per la prima volta l’internamento e in cui ha scritto versi come questi: «Fummo lavati e sepolti, / odoravamo di incenso. / E dopo, quando amavamo / ci facevano gli elettrochoc / perché, dicevano, un pazzo / non può amare nessuno».