Alda Merini, Sono nata il ventuno a primavera

01-04-2005

Monologhi, più che conversazioni, Perché Alda Merini non lascia parlare. In una stanza della sua casa di Milano, affastellata di oggetti come la sua poesia, che vive di accumulo, immagine su immagine. Così l'editore Piero Manni descrive gli incontri con la poetessa che hanno portato alla stesura di questa sua nuova biografia intellettuale, Sono nata il ventuno a primavera. Ecco alcuni stralci del libro.


Tra risaie e letterati, così ho preso la vita dal verso giusto, di Alda Merini


Mia madre era bellissima: noi tre figli sembravamo la sua brutta copia, ed insieme autoritaria, prevaricante. Anche la madre di Manganelli era così, tipo carabiniere, un po’ mascolina, imperativa; non si potevano amare queste madri, si potevano solo temere nonostante tutto l’amore che ci portavano, un amore dominante come quelli dei preti insomma, come un dogma: c’era un dogma in casa mia, mia madre era dogmatica.
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Dopo le scuole elementari, volevo entrare in convento: avevo una grande vocazione e sono andata in un convento a Vercelli; a casa si sono ammalati tutti, perché sostenevano che io avrei potuto essere una buona madre.
Io ho fatto una vita esattamente contro la mia volontà, e lì è andata persa tutta la mia spiritualità. E poi, come donna di casa non valevo un tubo, come madre nemmeno, anche se ho sempre sentito la maternità, sono una madre nata, però non una madre che spolvera, che sta attenta che il bambino non sporchi, non si faccia una macchia: sono una madre morale, mentale, custode dei figli.
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Andammo via da Milano dopo il bombardamento del 14 ottobre 1943 dove tutta Milano perse la vita.Milano era diventata un rogo, la gente scappava dappertutto e si strappava i capelli, i rifugi erano pieni di morti.[…] Io e la mia famiglia c’eravamo miracolosamente salvati e eravamo sfollati a Vercelli dove praticamente vivevamo nelle risaie. Passarono tre inverni tremendi in cui io stessa per potermi guadagnare da vivere andai a fare la mondina. E avevo appena dodici anni. Mia madre era divenuta inservibile. Traumatizzata dalla guerra non riusciva a dirigere la famiglia, mia sorella corteggiava i tedeschi e in tutta quella sarabanda molti divennero ricchi a spese dei poveri diavoli. Per un pezzo di pane avremmo venduto l’anima al diavolo.
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Mi è venuta la grande cecità isterica, non ci vedevo più; per circa tre anni sono stata cieca ed ho girato tutti gli oculisti, nessuno trovava niente finché mi hanno fatto quella cura magistrale del pentotal, che è il siero della verità; me l’hanno fatta a Torino, il primario mi ha detto: Guardi, signorina, che lei ci vede benissimo. Sono scoppiata a piangere.
Più che malattia posso dire la mia precarietà: ero una bambina molto emotiva, molto delicata, ero sempre ammalata, piacevo a stento: non ero una gran fiore di bambina.
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Ho cominciato a frequentare alcuni letterati. Io ho cominciato a scrivere poesie che avevo quindici anni. […] Una bambina di quindici anni col Pasolini, il Davide [Turoldo, ndr], il Sereni, Manganelli che la guardano come una specie di piccolo mostro letterario: questa non sa niente del sesso, quelli avranno ovviamente cercato un aggancio sessuale: lei si spaventava. Pasolini aveva un carattere orribile, non era simpatico; rigoroso e ancora di più noioso: io gli correvo dietro, gli facevo scoppiare i petardi tra i piedi –ero molto vivace quando ero ragazza, ero più maschio che una bambina–, ma non mi piaceva stare con lui, non mi piaceva. Scontroso, burbero ma anche determinato, forse lo ho anche amato. Mi faceva piacere pensare che quelle mascelle così contratte fossero come un pugno sul cuore di un uomo e mi veniva da deriderlo finché strappai a lui quella definizione di “ragazzetta milanese” che, forse, mi aprì le porte del successo.