Alessandro De Santis, Metro C

07-11-2014

Un corpo a corpo con Roma, di Francesco Filia

 
Metro C, Manni 2013, di Alessandro De Santis, più che una semplice raccolta è un vero e proprio libro, breve, solo venticinque testi, e intenso. Un corpo a corpo con Roma, disperato ed essenziale, rivelatore e spietato, ma intriso di un profondo amore per gli uomini, per gli ultimi, per gli antieroi che si sono arresi alla vita. La metro C, tutt’ora in costruzione, assume il senso di una vera e propria cartografia dell’intero testo, i titoli delle poesie si rifanno a luoghi che se non corrispondono in tutto alle fermate della metro sono ad esse prossime. Il testo, che si muove secondo una doppia direttrice orizzontale e verticale, è un vero è proprio viaggio, non solo per la città, ma attraverso la linea della metro, nel ventre della metropoli, nella terra con cui molti dei personaggi di questi versi sembrano avere un rapporto essenziale (Potresti sollevarlo con un/ braccio, e solo volesse/ e invece si lega a questa/ terra come il più/ basico degli elementi chimici). Il titolo della prima sezione da questo punto di vista è indicativo, Carotaggi, che sono il segno della dimensione ctonia del percorso che propone De Santis,un vero e proprio viaggio nel sottosuolo esistenziale della città, una catabasi nella sua dimensione più nascosta e inquietante. Questo è un libro di personaggi, che abitano e animano i testi. Sono prevalentemente barboni, anziani, immigrati, malati e ognuno di essi restituisce un frammento slabbrato dell’esistenza, un sussulto e un dolore, a volte anche un lampo di felicità. I testi sono costruiti, come fa notare nella prefazione Aurelio Picca, come istantanee, polaroid, in cui nel sottotitolo, insieme ad una didascalia, è riportata anche l’ora in cui sono state scattate, quasi a voler salvare l’istante di quell’immagine che è stata l’origine della poesia. Il sottotitolo, presente in ogni poesia, ha un valore di metaverso, una soglia che permette l’accesso ai testi, che al tempo stesso ne è rubrica e senso ulteriore. Il dettato è volutamente piano – con brevi e intense accensioni introdotte spesso da un uso spregiudicato dell’enjambement – quasi atonale, con un effetto a primo acchito straniante, ma che in questo modo fa emergere, anche attraverso un verso che si distende e contare a seconda delle necessità, la sobria compassione che lega l’autore alla materia del testo. Tra le molte figure di queste pagine, quella del matto – insieme alla dedica al padre in epigrafe che cita il Cristo – sembra svelare un aspetto essenziale di tutto il libro, un’intuizione che risale alla sapienza evangelica e che ricompare in queste pagine senza l’orizzonte della salvezza, la sapienza del mondo è vana, è follia, la verità, crudele e oscena, paradossalmente, può solo giungere dalle urla farneticanti di qualcuno che appare folle al mondo, che è detentore di una sapienza abissale (Non c’è proprio niente da ridere, stronzi/ Il matto parla/dice, sputacchia, impreca ad alta voce/ lui, spesso dice la verità). E qui che le fermate della metro si trasformano in vere e proprie stazioni di una via crucis nel dolore dell’esistenza, in cui ogni poesia è una scena che rivela la condizione umana, attraverso i personaggi e i nomi soprattutto, nomi come tanti, soprannomi (Il “lupo mannaro”, Claudio, Rachid, il “rumeno”, Tiberio, Fausto, “l’uomo senza braccia”, il “matto”, Maria, Elio, Michele, Dave, Aurelio, Dino, Domenico, Fabio, Paolo, Mirco, Walter, Jacopo, Agostino e “Re Luciano”), nomi che nella poesia di De Santis sembrano avere una funzione salvifica, sono un modo per sottrarre all’oblio l’umanità che si affaccia su queste pagine e chiede una ragione, un perché, un’ultima parola da dire o un ultimo gesto (ha chiesto al mondo a/ che round eravamo,/ il conteggio avanzava/ e la vista era nebbiosa). Anche chi nome non ha come il protagonista di Torre Maura, privato delle braccia, ma non per questo privato di vitalità nei suoi movimenti tragici e grotteschi, che cerca di dire un ordine, dove ordine non c’è più, e proprio in questo tentativo questi versi manifestano un valore ulteriore, diventano un simbolo dell’impotenza e al tempo stesso della necessità della poesia, che in fondo non è altro che un tentativo di ricreare, solo con le parole, un ordine che si è perso definitivamente e che ci lascia incompleti (L’uomo senza braccia/ non cerca appigli/ l’uomo senza braccia/ ha sporte che gli pendono dai lembi/ muove il mento/ come a voler dire qualcosa/ il volto smunto/ povero di peli/ un tipo biondo lo fissa/ segue con lo sguardo/ la sua ellittica geometria/ un uomo – si sa- esige dei legami/ non ha motivo d’essere/ quell’albero potato,/ senza rami.). Vorrei concludere queste note con un riferimento che mi ha suggestionato durante la lettura del libro di De Santis, ed è quello a un film poco conosciuto, ma che mi sembra proporre almeno una parte dell’immaginario di queste poesie ed è L’imperatore di Roma di Nico D’Alessandria, in cui il protagonista, Gerry, tossicodipendente con problemi psichiatrici, si aggira per una Roma estiva e allucinata e, come gran parte dei personaggi del libro di De Santis, è sprofondato in una vita disperata e senza regole, ma attraverso la sua condizione mostra una vitalità indomita che tutti gli altri, i normali, gli inquadrati, i veri arresi, non hanno e questa dimensione vitale e disperata emerge anche dai versi di Metro C, potente e inesauribile, in cui, la meta del libro e del percorso, non è una salvezza ma una sfida ulteriore, perché l’arrivo, La destinazione (come dal titolo dell’ultima sezione), è nel fondo che fondo non è mai dell’esistenza, è nel continuare a scavare fino al silenzio o al rumore di fondo che è un ballo felice e rovinoso.