Grandi opere, il carotaggio è multiplo, di Lorenzo Mari
A sette anni dall’esordio con Il cielo interrato(Joker, 2006), la seconda raccolta poetica di Alessandro De Santis si presenta come un libro molto compatto e al tempo stesso molto fragile. Non ‘debole’, beninteso; semplicemente, l’esplorazione della fragilità – che è urbana, prima di tutto, ma anche affettiva, esistenziale, politica – rende il dettato poetico estremamente accogliente verso di essa, impedendone una – sempre facile – sovradeterminazione retorica.
In virtù di questo paradosso strutturale, la raccolta finisce per configurarsi come una Via Crucis laica, che attraversa le varie fermate di quella Metro C che dà il titolo al libro (pubblicato per Manni nel 2013). Anzi, in virtù della divisione, molto netta, in tre sezioni – “Carotaggi”, “Fermate” e “Destinazione” – Metro C sembra inizialmente proporre un viaggio lineare, un’evoluzione che porta, in modo pacifico e serafico, alla crocifissione e alla resurrezione. Lo sviluppo metafisico è però sconosciuto – almeno nella versione inebetita o, di nuovo, retorica, che è propria di altri autori – alla poesia di De Santis, il quale si sofferma sulle piccole cose – senza patire, su questo punto, il confronto con la tradizione lirica, già gravata di mille imitazioni – e sulla prosaicità della vita quotidiana, non proponendo mai, neanche per negazione, un’oltranza che sia in qualche modo decisiva.
Siamo calati in una galleria della metro, d’altronde: ne fornisce conferma il testo finale, “Giuochi istmici” (dal significativo sottotitolo: “Ore 12,22. C’è pure la lirica. Le scarpe scendono”), che si concentra su una gnome particolare, cara anche a chi scrive (“Si scava verso un fondo / che fondo non è mai”), raddoppiata poco più avanti da un simbolismo materialmente funebre, eppure trattato con leggerezza e ironia (“ossa e occhiaie vengon fuori / e la gente scalpita”).
Anche certi enjambements esplicitamente arditi (“ha chiesto al mondo a / che round eravamo”) ci mettono di fronte al dubbio che, in luogo del gioco di morte e rinascita, la metro che abbiamo preso possa cadere, a un certo punto, in un burrone, e perdersi… in un cantiere rimasto aperto, per esempio – per rimanere in linea con l’ironia che emerge, in sottotraccia, in tutta la raccolta.
Ci si deve soffermare allora non sul telos – impossibile, laddove la linea C della Metro di Roma, cui si fa riferimento nel titolo, è ancora da realizzarsi – bensì sull’incedere, sulle varie fermate. Qui, la lingua di De Santis avanza – lasciando perdere i cascami della linea lombarda, o il ritorno alle borgate romane, nel solco dei vari Pasolini e Siti – verso la ricerca della propria tradizione, costruendola, passo passo, in modo complesso. Non è facile registrare quale carotaggio sia stato precisamente scelto dall’autore, in presenza di un carotaggio multiplo, plurale, che è esercizio di rabdomanzia, piuttosto che pragmatica invenzione a tavolino del proprio stile.
Con giusta prudenza, nella sua lucida e appassionata “Nota” di apertura, Aurelio Picca non si sofferma sulle influenze registrabili nella voce dell’autore, preferendo una brillante e lucida cavalcata metaforica. Di seguito, sono già le quattro epigrafi iniziali scelte dall’autore a fornire problemi di coesistenza a chi ne volesse trarre un’indicazione di poetica univoca e coerente. Attraversando il Novecento e fornendo le aperture necessarie a superarlo, Clemente Rebora, Fabio Pusterla, Mario Benedetti e Flavio Santi sono nonni, padri e fratelli maggiori per De Santis… e al tempo stesso non lo sono.
Merita, infatti, altrettanta menzione la tradizione del “romanzo in versi” (che, negli ultimi tempi, ha in Luca Ariano uno dei suoi più chiari esponenti, in presenza, però, di una ricorsività strutturale di nomi-personaggi che in Metro C, che si sviluppa a episodi, non c’è) e il fauvismo di Simone Cattaneo, del quale, a differenza di tanti critici, apologeti e promoter post mortem, De Santis è, in alcuni tratti, vero sodale.
Graniti
Ore 9,20. Un lupo mannaro o forse Kappler
Tutto il giorno aveva camminato sul ciglio della strada
contava i passi e li classificava
e poi passava agli organi, alle carni
la lingua lastricata e le sue selci
intrise del sudore del non dire
Aveva infilato le mani chiuse a pugno nelle tasche
ed era risalito sin dentro alla campagna
Fatto inventario dei pali dei filari
piantati come croci, sporcato la punta
delle scarpe nello stabbio
Ore ed ore si era soffermato,
intere ere geologiche e crisi di governo
prima di vedere quella farfalla posarsi
sulla rete metallica del suicida
Senza dote di stelle lo raggiunse brusca la notte
gli aprì la bocca come a prender fiato.
Vide l’esatto diametro del cuore umano
e pensò che fosse proprio una bella
giornata per ricominciare, per un attacco aereo
negli occhi ancora il rapinoso schianto di quando
quel ponte se n’era sparito ghiotto.
*
Grotta Celoni.
Ore 23,55. La pioggia scoraggia. Vuoti
Il rumeno è biondo e ha
le ossa grosse, lo si sa
questo però è magro, smunto,
il viso pigiato sulle cosce
La postura è quella di una tagliola
i jeans puliti, azzurro chiaro
con punti di varechina sugli stinchi
le sue mani scarnite sembrano una carta
fisica colore di pianura,
solcata da vene nette come fiumi
La sua assenza stringe il cuore:
è qui e altrove,
senza requie
In strada, che vada in strada,
sangue d’un cane.
*
Farnesina
Ore 23,59. Poco prima del Big Bang. Senza fondo
Stretto nel suo gilet, Mirco
si volta verso il muro di persone
la mano destra piantata
dritta nella tasca, scenica
il viso chiaro, sbarbato,
da vero neomelodico, capelli
a frangia e profumo neutro
da un pezzo già si è fatto tardi
ma anche se un po’ brilli gli amici
aspettano, ché non ha più diritto a dileguarsi
e dopo il ritornello c’è la strofa.