Librazioni, di Diego Bertelli
A crowd flowed over London Bridge, so many,
I had not thought death had undone so many.
T.S. Eliot
Comprare casa in via dei Giuochi istmici è una gara, se non una vera e propria sfida. Gli appartamenti costano di media 600.000 euro, per non parlare degli attici. Si tratta di costi esosi, come quelli della Metro C, la prima metropolitana con i convogli senza conducente che da Pantano sarebbe dovuta arrivare vicino a quella strada, nella zona di Vigna Clara – Tor di Quinto. Un tracciato di 42.2 Km «con un volume di passeggeri stimato pari a 36.000 passeggeri/ora di punta», che ha avuto una storia sofferta come tanti lavori pubblici in Italia. Da quei 42 Km circa «si passò a 39 Km ed infine all’attuale sviluppo di 25,5 Km di cui 17,6 in sotterranea e 7,9 in superficie con 30 stazioni ed un volume di passeggeri stimato pari a 24.000 passeggeri/ora di punta».
Sono questi i dati che si leggono sul blog di Carteinregola, un gruppo attivo sul fronte delle questioni ambientali e dei lavori pubblici, che da tempo sta seguendo la sorti della nuova metropolitana di Roma. Nella terza regola del manifesto di Carteinregola si legge anche che la città non deve essere un «contenitore di provvisorie intersezioni di esistenze individuali, ciascuna racchiusa nel suo spazio privato. La città è un organismo vivente […], memoria del passato, che si trovi nei muri o dentro le persone». Basterebbe sostituire la parola “città” con “poesia” per ottenere una prima serie di immagini che bene descrivono Metro C di Alessandro De Santis (Lecce, Manni, 2013, con nota di Aurelio Picca).
Per chi, come me, conosce Roma poco e male, il dato topografico della poesia di De Santis ha coinciso con la necessità di cercare concretamente i luoghi di quel percorso su Google Chrome. Ho cominciato dalla fine, credendo erroneamente che soltanto il “termine corsa del treno” non esistesse più, per via della drastica riduzione del suo tracciato. Digitando “giuochi istmici” sulla tendina del motore di ricerca, mi sono apparse in ordine le seguenti voci: «giochi istmici», «giuochi istmici», «via dei giuochi istmici», «attico via dei giuochi istmici roma».
È da quest’ultima combinazione della ricerca che mi rendo conto che le case in quella zona hanno prezzi esorbitanti. Mi sono chiesto quanto abbia pesato il fatto che in un quartiere residenziale fuori Roma la metro C non fosse piu arrivata. Il flusso umano e l’impatto ambientale delle stazioni avrebbero senz’altro cambiato le cose. Invece il tracciato della metro C non è stato soltanto ridotto di volta in volta, ma non è neanche mai stato attivato. Come è accaduto alla fine del secolo XIX nel centro esatto dell’istmo del Corinto, sede dei giochi ricordati dal nome della strada, sembra che una separazione sia avvenuta anche alle porte di Roma. Qui però, al posto di un canale artificiale che ha reso di fatto il Peloponneso un’isola, è l’invisibile cesuradei lavori in corso ad aver modificato lo spazio extraurbano della capitale, lasciando in sospeso l’identità dei vivi e dei morti, il loro lascito sepolto nei secoli: «Sei, i gradi di separazione / tra un trivellatore e un centurione / e ferri, cocci, e materiali / Si scava verso un fondo / che fondo non è mai / e quando il gran lavoro / (s’) appressa al taglio-nastro, / ossa e occhiaie vengon fuori / e la gente scalpita, / mescola da bere col ricordo, / in un banchetto scomodo, / dove il rumore di fondo è un / ballo felice e rovinoso» (Giuochi istmici Ore 12,22. C’è pure la lirica. Le scarpe scendono).
Una linea metropolitana può tanto unire, quanto separare; per questa ragione, forse, una destinazione rimane tale al di là del mezzo. È questo quello che intuisco dalla poesia di De Santis, dai luoghi e dalle persone descritte lungo il percorso sotterraneo e superficiale della metro C. Le figure che popolano lo spazio liminale delle soste occupano una dimensione tanto concreta, quanto ipotetica, in cui il dato temporale si fa accessioro al transito delle stazioni. Il tragitto della metro C è un epica rispetto alla quale la linearità retrograda e meccanica del treno sostituisce la circolarità classica del viaggio. Per questa ragione, il dato topografico è talmente importante nel percorso poetico di De Santis: sono proprio le stazioni, grazie alla valenza del termine, allotropo di stagione, a determinare un ciclo che non tiene conto delle ore. Alle 19,19, alle 09,20, alle 23,55 arrivare è ritornare ogni volta, “ripassare” fisicamente e col pensiero.
Per farlo, De Santis usa la tecnica di un video racconto. Immagineatevi un cellulare con cui si riprende la metro in movimento in prossimità delle stazioni: le porte che si aprono, la gente che appare ma che, al contrario di quanto ci si aspetta, non deve salire; immaginatevi adesso di vederla grazie a un montaggio successivo su Youtube. Quello che si ottiene è una serie di immagini mosse di trenta, quaranta secondi al massimo, con le seguenti didascalie: Tomba di Nerone Ore 08,20. Saliscendi; Velleità pensionabili; Fori Imperiali Ore 12,05. Sul ponte con le bamboline. E mette il gel; Venezia Ore 10,44. Telefonata mattutina. Cooperazione internazionale. La lettura, di conseguenza, corrisponde esattamente a quello che si vede; i versi sono immagini, veloci fotogrammi in serie: «È un corpo cavernoso, Aurelio / si riempie del sangue dei suoi avi / fa passi stretti, da boxeur / il naso»; «Si passa per la porta / nel chiuso, uno alla volta / ciascuno col suo groppo / ciascuno il suo rancore / e Walter con la polo / macchiata di sudore»; «ma col sorriso sulle labbra, / i capelli sciolti e le spalle ossute / Evita un taxi in corsa, Dino, / salta sul bordo del marciapiede e poi si / infila nel primo negozio / aperto con uno scatto da ala destra».
La strategia è quella di un verso che riparte senza alcun sussiego. De Santis rinuncia a un elemento della sintassi decisivo, il punto alla fine dei versi interni, per ottenere la qualità visiva che il verso richiede. Questa scelta permette così una sequenza di lettere maiuscole in principio di verso che guida l’occhio sulle parti più esposte dei personaggi di questa raccolta: «Le mani unte, impiastricciate / rigira il sacchetto del fritto / lo gonfia e lo sgonfia a mantice / Ora gli scappa un sorriso / i denti lucidi si fanno avanti come pistoni / lo zaino in spalla stracolmo / Ha paura che i giorni non / siano abbastanza, Dave» (San Giovanni Ore 17,20. Fa sogni da ragazza. Architetture bianche).
Quello che conta è che non sono gli altri a salire; casomai è il poeta che scende. La raccolta, divisa in tre sezioni, «Carotaggi», «Fermate», «Destinazione», presenta una campionatura di tipi umani che confonde gli estremi dell’animo a ogni sosta. Si tratta di vittime e carnefici a seconda della prospettiva; figure umane osservate alla loro specifica stazione, nella loro momentanea stagione della vita, che guardano tanto quanto sono guardate: «Gli occhi di Rachid sono / neri come il bitume / brulicano intenzioni / Vorrebbe piantarti un coltello nell’orecchio / o solo chiederti se ti serve qualcosa / offrirti della sambuca che ti bruci la gola» (Fontana Candida Ore 11,45. Torno subito. Finalmente parte il fax).
La poesia di Metro C è in tutto e per tutto una sequela di esistenze sospese e di passaggi, in una perfetta dimensione purgatoriale. La metropolitana diviene una forma di espiazione dentro il tempo, con i suoi passaggi, in cui lo spiraglio della salvezza non corrisponde con l’uscita. Lungo fermate che non esistono, uno dopo l’altro appaiono corpi e nomi che costodiscono il dolore. Il viator di Metro C non è diverso da loro; all’interno o all’esterno dei vagoni ognuno resta una figura sulla soglia; guarda ed è guardato, determinando sin dall’inizio un riconoscimento reciproco e quasi uno scambio con l’“altro”: «Uomo dalla bara rosso brillante / guardando dalla tua porta / all’orizzonte, vedi la pioggia che / cade su uomini tristi come / le loro scarpe piene d’acqua. / C’è forse quiete sotto questo / avvelenato fiume in tumulto / C’è forse il tuo canto di lillà, scrigno / prezioso di grazia e vita eterna» (Pantano Ore 19,19. Una goccia di puro suono. La maglia a V).
Il merito di De Santis è dunque quello di non aver soltanto posato lo sguardo sui quei personaggi. Nel poeta avviene una sintesi tra visione e idea: non c’è sguardo senza il pensiero dell’altro. Per questo quelle figure hanno sempre un nome; è attraverso di esso che le loro vite sono capaci di ricondurre ognuno di noi a un’appertenenza universale. In piedi, in attesa, il poeta riesce ad avverare una coincidenza. La sua è un’appropriazione che non ha più bisogno di un «io»; sono i sei gradi di separazione tra gli esseri umani, quelli entro i quali noi tutti ci (ri)conosciamo. In De Santis, oltre alla conoscenza, è valso anche un riconoscimento, quello che in poesia la prima persona da sola non si sarebbe potuta permettere.