Mare come vita, ciclo vitale, simbolo ambivalente di morte e rinascita ma anche luogo della memoria e del tempo, scandaglio universale della storia umana, della coscienza individuale e collettiva. Mare scritto di Alessandro Serpieri si ispira a questa pregnante metafora fin dall’incipit, che evoca frammenti e citazioni dall’Odissea per riecheggiare il tema classico dell’incontro coi morti nell’Ade.
Parimenti, sul piano della scrittura autobiografica ispirata al romanzo di formazione, Michele Zandonà, il protagonista, rivive il passato intessendo coi familiari defunti uno struggente dialogo che lo spinge alla dolorosa necessità di scavare nella propria memoria. Di qui il narratore si produce in una serie di racconti, pieni di umanità e di umorismo, che rievocano le tappe fondamentali della vita del protagonista, secondo una cronologia quasi sempre progressiva ma con una varietà di stili, istanze narrative e toni, ora drammatici ora comici, che suscitano nel lettore intense sensazioni di compartecipazione emotiva e sano divertimento.
Non di rado gli episodi offrono lo spunto per brevi digressioni sulla natura umana con le sue infinite miserie, sul ciclo della vita o sull’idea della morte, innalzando il tono del discorso su argomenti di respiro filosofico, coerentemente analizzati con il linguaggio metaforico che caratterizza il racconto:
“L’esistenza non era altro che un segreto midollo, fatto di balzi e rimbalzi, brividi e torpori, dolori e stupori, annidato dentro un osso di artifici a proteggersi dalle zampate violente del tempo. Come poteva balzare allora tutto intero, col suo passato e il suo presente e il suo inimmaginabile futuro, a toccare con mano le cose? Non amava tanto quello che lo circondava quanto l’innesto che poteva farne nel grande tronco screziato, bucato, concavo, rimbombante, assordante, della vita.” (p. 119)
Dai primi ricordi dell’infanzia agli anni ludici dell’adolescenza, dalle esperienze erotiche dell’età adulta ai viaggi esotici della maturità, la narrazione procede attraverso una serie di ritratti di personaggi ed ambienti descritti con una sintassi vivida e sincera, a volte anche ironica, ma sempre piena di sentimento e genuina nostalgia che si nutre consapevolmente di echi e richiami di luoghi ed episodi della letteratura classica e straniera.
Oltre alla creativa influenza dell’Odissea, si avverte la presenza strutturale dell’opera di Shakespeare, Joyce, Virginia Woolf, T. S. Eliot e E. M. Forster, tutti particolarmente amati e studiati dall’autore. Una presenza che appare sotterranea nei capitoli iniziali per poi trasformarsi più esplicitamente quasi in citazione letteraria, secondo i modelli teorico-estetici della narrativa post-moderna.
Da questa fitta rete intertestuale si muove una continua ricerca stilistica che apre altresì alla sperimentazione mista di nuove proposte narrative: dalla scrittura autobiografica al monologo interiore; dallo scambio dialogico diretto alla narrazione in prima persona; dal racconto di viaggio al saggio discorsivo; dalla cantilena alla poesia.
Sul piano della costruzione metaforico-simbolica, il mare è sempre al centro della diegesi, divenendo vera origine di ispirazione del romanzo. Non solo scandisce il tempo della narrazione, contrassegnando i luoghi cronologici della memoria e il ritmo del racconto; sul finire si trasforma anche in un locus universale che accoglie il desiderio di metamorfosi marina del protagonista e della sua compagna, una specie di ritorno esistenziale all’origine della vita. Fra tutti, il capitolo intitolato appunto “Il mare” ne offre una poetica sintesi di tutte le complesse valenze iscritte nella storia della cultura, inclusa quella temporale di orologio della vita e del tempo:
“Il vecchio aveva perduto il relitto a cui si era agguantato nel suo ultimo mezzo secolo, o fin dall’inizio della sua esistenza: agguàntati, bambino mio, agguàntati, è l’unica cosa che conti veramente, il mare del tempo non lo conosci mai abbastanza, sembra calmo e di colpo fa burrasca, ti trascina lieve che quasi non lo senti e poi ti dà uno strattone improvviso, bambino mio, agguàntati, non distrarti, non mollare. Ma ora, vecchissimo, la marea del tempo con lui dolce, azzurra, forse perfino amorevole, si era ritirata lentamente, piano piano, da quel volto di marinaio convertito in contadino e già abitato da ombre di morte, era calata giù lungo il collo rugoso, le spalle aguzze, le punte delle ginocchia, giù, piano, giù, verso il fondo di tutti i suoi tempi, nel precipitante cimitero marino. Tronco secco, biancastro, levigato da un mare morente. E in alto, oltre la superficie di quell’acqua invisibile, rondini in volo e quattro note staccate, ritmate, come petali d’eternità lievemente oscillanti e calanti nella torrida estate.” (pp. 132-33)
Serpieri produce un’opera di facile e difficile lettura contemporaneamente, perché adatta ad essere recepita attraverso gradi differenti di intensità e partecipazione. I racconti che accompagnano il processo di formazione dell’uomo e dell’artista possono essere letti singolarmente, affatto staccati dal loro contesto, perché si fanno apprezzare per la vivezza del linguaggio e l’autonomia del dettato e del registro stilistico (con cui si sperimentano forme narrative diverse); ma possono anche leggersi nella loro consequenzialità tematica e strutturale, nella loro giusta dimensione collaborativa ed organica su cui poggia l’intera orditura metaforico-simbolica dell’intreccio. Questa seconda, più impegnativa strada ci premia con un romanzo ricco di stimoli culturali, costruito con una diegesi varia e complessa, spesso intrisa di echi e rimandi letterari, che ci avvince con una molteplicità di livelli di analisi e di suggestioni critiche, favorendo una più intima e profonda correlazione del rapporto narratore-lettore.