Alessandro Serpieri, Mare scritto

01-06-2007
Dall'altra parte del tempo, di Mario Domenichelli

Spesso capita nel Modernismo che la scrittura torni al mito omerico. Ulisse è il titolo del capolavoro di Joyce; con un tempo bloccato sull’isola di Circe inizia Hugh Selwyn Mauberley di Pound; con la nekya, il descensus ad inferos inizia il grande poema seriale di Pound, i Cantos. Eliot richiama Ulisse anche in Terra desolata, ma soprattutto in quel verso «Old Men should be explorers» dei Four Quartets. L’Odissea diviene una metafora per la scrittura stessa, l’avventura della scrittura come interrogazione della memoria, del passato, delle tombe nella memoria, e nella scrittura tornano le morte voci come schegge di passato alle quali si tratta di dare senso e coesione, forma e senso di racconto alla vita vissuta. Mare scritto, il secondo romanzo di Alessandro Serpieri – a distanza di trent’anni l’altro romanzo “marino”, Mostri agli Alisei (Bompiani 1977) – inizia con la rievocazione dell’arcano canto dei morti nel poema omerico (XI), in cerca di risposte sul passato, riguardato dal presente, verso il futuro. Serpieri certamente ricorda quello che scrive, con qualche eco pascoliana, il Pisolini de “Il luzoùr” (La Meglio Gioventù) che così traduciamo dal friulano del poeta: «Giova più ciò che si smemora, di quel che si ricorda: | meglio spezzare la corda| che mi lega a una terra morta e insieme nuova. | meglio questa vita nuova e morta | il breve inverno che vivo |  mentre a Casarsa l’inverno eterno riluce nel cortile […] | Laggiù i miei cari mort i| portano in cuore e sulla lingua la luce del piccolo paese che vive fuori dalla vita | nella vita di chi vi è già vissuto. | per altro destino, io muto, sto qui a parlare | loro che non san che parlare | sono laggiù, lontani, muti nel chiarore». Michele Zandonà, la voce narrante di Mare Scritto, incontra i suoi morti in un “limpido pomeriggio d’inverno” in una radura tra alberi dalle foglie ingiallite. In quella radura del ricordo, in quel chiarore così trovato, giungono le morte voci del passato, le voci segregate nella memoria, a cui la scrittura deve ridare suono e accento.
Scrittura autobiografica, persino romanzo di formazione, per certi versi, se non fosse che la scrittura stessa ne fa un romanzo lirico; questa scrittura liriconarrativa si struttura a partire da un mito, quello di Ulisse, e si chiude su un mito, quello del tempo rovesciato nel mito di Medea che ridona la gioventù a Esone; la storia in chiave di automitobiografia si fa tuttavia nel compenetrarsi di tempo personale e tempo della storia, attraverso il tempo del mito che è esattamente quella radura, che circoscrive lo spazio in cui vengono ad affollarsi le voci del passato. Weinrich nella sua analisi del mito di Ulisse in Letteratura, arte e critica dell’oblio (il Mulino, 1999) vede tutto il percorso dell’eroe come teso tra necessità del ricordo che spinge al ritorno ed esigenze dell’oblio che spingono verso l’alto mare, verso la metamorfosi marina su cui si chiude il romanzo – certo lo Shakespeare della Tempesta, e l’Eliot della Terra desolata di cui Serpieri si è a lungo e memorabilmente occupato nel suo mestiere di anglista. Queste due linee di tensione, la memoria e l’oblio, appaiono chiare nel romanzo di Serpieri, nella sua scrittura tesa al ritorno, al “tempo perduto”, certo e, nello stesso momento, ritmata su una volontà di nuove infinite partenze, di molteplici rinascite a partire da un altro mito in chiave, quello di Er, dalla repubblica di Platone, in cui le anime dei trapassati vengono chiamate a scegliere il daimon che deciderà della loro prossima vita dopo però aver attraversato il Lete, il fiume dell’oblio che tutto smemora (Davanti alla scelta) per una nuova partenza. Le ombre richiamate così, già in chiave, alla fine del primo capitolo (All’Ade) divengono non più figure del ricordo e del ritorno, ma figure dell’oblio. «Ombre spiavano da dietro a barriere di vetro che impedivano contatti. Ombre buie in gallerie di ricordi. Dicendo addio, avevano girato via con vele nere, al centro di un mare di piombo, nella luce verticale dell’assenza. Dall’altra parte del tempo».
Le presenze femminili, tutte con le maschere del mito, Calipso, Circe, Nausicaa, Penelope lontana, alla fine si risolvono in Medea e in quel ritorno che è il tempo capovolto della scrittura, il tempo di Esone, a cui la magia di Medea restituisce ciò che il tempo ha divorato, sicché Esone è, nell’interpretazione di Serpieri, l’approdo sconosciuto, il “vero giovane amante” che deve a Medea il suo stesso rinnovato sangue. In Mare scritto, il ritorno al tempo perduto nella memoria, tutti i ricordi delle amicizie, degli affetti, degli amori dunque si articolano all’interno del mito, e il mito è quella polifonica radura a cui giungono e divengono riconoscibili le voci del passato. E la scrittura di questo romanzo a metà tra parola lirica e necessità narrativa trova accenti strani, bizzarri, incantati, di vera e forte poesia. Una scrittura senza direzione che non sia quella del fluttuare infinito del mare: «Tracce, Scie. Cammini. Mare scritto. Riscritto da altri venti. Sparpagliamento di immagini. Immagini adunche sulle ciglia abbagliate dal sole, immagini laterali in fuga sulla terra dimenticata, immagini aperte come fiori innamorati, immagini chiuse su piccoli delitti, immagini spente ai lati della strada, immagini accese nello specchio dove muoiono e rinascono le immagini. Rotazioni di cerchi ed elissi, stagioni, giri di luna e di sole, galassie sgranchite nei vortici. Dovunque curvature di venti e correnti a formare ciottoli tondi, rotolati verso la costa concava della morte». Non troviamo migliore descrizione del metodo, del verso, della qualità della scrittura di questo romanzo di Serpieri, tra l’andare e il tornare, tra il ritrovarsi e lo sperdersi, tra il darsi forma e il disciogliersi d’ogni forma in immagini d’acqua, creature d’acqua, in perenne metamorfosi marina, ogni forma cancellata e mutata dalla marea, ma in quel mutare che nessuno veramente può decifrare, sta una «testimonianza felice… forse l’unica risposta sensata che fosse mai partita dalla terra incontro ai brividi irrisolti delle stelle». Un “trovar chiuso”, certo, che nel celarsi trova la magia del tempo capovolto, e il brivido delle stelle. Vale davvero la pena di leggerlo.

 
 
Una goccia nel mare, di Mirella Billi

Sottende tutto il romanzo Mare Scritto – in cui tracce autobiografiche vengono ricostruite e ricomposte in una biografia che comprende il racconto di altre vite e altre vicende – la metafora marina, nel cui ininterrotto e misterioso fluire tutto si origina, si muove, passa e infine si disperde, lasciando comunque un segno indelebile di ciò che la compone e che ne fa parte. Come ne Le onde di Virginia Woolf, nel romanzo di Serpieri – che, pur nella sua diversità dall’opera delle scrittrice inglese, ne condivide non solo l’impianto metaforico, ma il senso di una ciclicità che accomuna l’uomo e il cosmo – la vita individuale viene associata alla singola onda, che fluisce e defluisce, si forma e si disfa, per poi ricomporsi e ricostituirsi in altre nello scorrere e nell’infinito movimento delle acque marine, la cui origine si perde, così come la sua – apparente – dissoluzione, nel tempo.
L’incipit del romanzo si apre significativamente con una citazione dall’Odissea, la prima opera in cui si fondono la metafora marina con quella della vita umana come viaggio, iniziato in un momento e in un luogo imprevedibile e inesorabilmente diretto verso il mondo delle tenebre:
“E quando al mare fummo giunti, la nave per prima cosa spingevamo nel mare divino, e albero e vele alzavamo sulla nave nera […] Per un giorni intero, a vele spiegate, corremmo sul mare. Tramontò il sole […], l’ombra giungeva ai confini di Oceano […] fino all’Ade, dove dimorano, privi della parola, i fantasmi degli uomini morti”.
La citazione colta – una delle moltissime contenute nel libro, ma che l’autore,.finissimo docente e critico letterario oltre che già romanziere, riesce nel non facile compito di mantenere prive di qualsiasi pedanteria, al contrario rivitalizzando e rinnovando il senso delle opere cui fa riferimento – si lega alla coscienza centrale del romanzo, che risponde al nome di Michele Zandonà, alternativamente narratore in prima persona o onnisciente, e commentatore distaccato, in un alternarsi molteplice e fluido che anche a livello enunciativo si rivela coerente con la basilare metafora marina che sottende, come si è detto, tutto il romanzo. Ancora come in Woolf, questa coscienza centrale corrisponde a quella di uno scrittore (che testimonia e fissa con la parola, da artista, ciò che resterebbe labile, sconosciuto o dimenticato), ma non dell’autore stesso; infatti, anche se in vari momenti Michele Zandonà rimanda a chi scrive, e a vicende e figure della sua vita personale, mai si identifica con lui, e anzi, evitando un fastidioso e sterile autobiografismo, ne fa un personaggio staccato, con una sua personalità distinta, il cui percorso esistenziale si articola nel romanzo indipendentemente dal proprio. Tale percorso del personaggio è scandito in vari “movimenti” e fasi, contrassegnati da intitolazioni precise, quali “Crescendo”, “Cercando”, “Approdi e ritorni” – tutti, come si vede, coerenti con l’idea del movimento, del trascorrere, e del fluire.
Le memorie legate all’infanzia, della nonna, della madre, della sua nascita, dei primi giorni di vita, sono tutte legate al mare, fonte di vita, all’origine e nell’approdo definitivo:
“Sua madre l’aveva poi amata moltissimo. Era come il mare lieve e verde o azzurro dell’infanzia, il mare dove lo avevano immerso tante volte fino al petto la stessa estate sulla cui soglia gli era capitato di nascere. Mare fresco, mare caldo, mare salato negli spruzzi che certamente erano saliti alle sue labbra facendogli assaporare un altro liquido, più antico, più universale e non meno vitale di quello che gli giungeva da diverse […] fonti. Forse il mare fu per lui la vita stessa […]”
Cosi come il mare «ha tante voci, ma non le usa sempre in maniera polifonica», anche gli umani, nelle loro differenze, nelle varie fasi della loro vita e dei loro umori, parlano con voci diverse. Accanto a lui, si muovono – fluiscono – le persone e le immagini dei nonni, delle zie (delizioso il ritratto della zia Bettina, perennemente impegnata, nell’oscurità della sua abitazione chiusa al resto del mondo, a rovistare e scartabellare le vecchie e nuove carte delle tante cause che ha intentato contro tutti i possibili enti pubblici e privati della sua città), del fratello afflitto da strabismo, delle cugine, del maestro, dei compagni di scuola. E già nell’infanzia, è la scrittura – allora su un quaderno a quadretti – ad allontanare l’amarezza delle delusioni, il senso di colpa, il disagio, le paure, l’angoscia della precarietà, l’incognita inquietante del caso, che già si affacciano nella sua vita, e che saranno superate soltanto nella fase più adulta e matura, quella in cui iniziano la riflessione e la ricerca – di se stesso e del mondo.
L’incanto dell’infanzia (le vacanze trascorse al mare, l’incontro con “la signora”, i giochi) e i turbamenti dell’adolescenza (le prime schermaglie amorose, l’evidenziarsi della propria mascolinità, la scoperta del sesso), vengono ricordati e registrati sullo sfondo della guerra e delle sue tragedie, che restano, per il bambino e per il ragazzo, inevitabilmente lontani: la Storia ancora non entra, se non episodicamente, nella coscienza e nella percezione del mondo, ed è soltanto con il passare del tempo che si ampliano gradualmente nell’incontro con altri paesi e altre culture – dal viaggio a Londra all’esperienza americana – quando ancora sono la storia personale, e una visione individuale, a prevalere.
Nella sezione intitolata “Cercando” abilmente si ricostruisce il passaggio a un livello di consapevolezza più ampio, e le esperienze personali vengono gradualmente inserite, fatte defluire fino a fondersi nella onnicomprensività del flusso vitale; la citazione dei significati di “mare” nel corso del tempo trasporta la concretezza dell’esperienza individuale – a livello enunciativo contrassegnata dal passaggio dalla prima alla terza persona – in una prospettiva più ampia, si dilata nella vastità di spazi e tempi e si apre alla complessità delle culture, che tutte convergono sulla centralità del mare nella vita della natura e dell’umanità:
“Un giorno, Michele si mise a consultare dizionari e testi antichi alla ricerca di almeno qualcuno dei segreti di quel mare, che più di una volta e forse da sempre, gli era apparso come lo spazio figurato del tempo – e come il suo specchio: da intendere del tempo e, in qualche modo, della sua stessa mente che soprattutto nei dormiveglia sembrava mareggiargli dentro”.
E se prima dei Greci e dei Romani il mare, come viene rilevato, designa acque ferme, o un abisso tenebroso, nel corso del tempo si fa «luogo della prova, di esperimenti e ricongiungimenti, di dei favorevoli o sfavorevoli, di ninfe e di sirene, di mostri in agguato sotto o sopra le acque su rotte felici-infelici», ma soprattutto rimanda alla fecondità e alla vitalità, e all’erotismo di Venere, la dea nata dalle onde, che Omero rappresenta anche in altre figure, Calipso, Circe, Nausicaa, e nella lontana Penelope, le donne che accompagnano il viaggio di Ulisse su un mare multiforme, dalle mille definizioni, che si ripete da sempre «in una folla maestosa di onde». Lo scrittore stesso si perde nel flusso, nella sua vastità, nei suoi infiniti aspetti:
“Tracce. Scie. Cammini. Mare scritto. Riscritto da altri venti. Sparpagliamento di immagini. Immagini adunche sulle cime abbagliate dal sole, immagini laterali in fuga sulla terra dimenticata, immagini aperte come fiori innamorati, immagini chiuse su piccoli delitti, immagini spente sui lati della strada, immagini accese nello specchio dove muoiono e rinascono le immagini. Rotazioni di cerchi ed ellissi, stagioni, giri di luna e di sole, galassie sgranchite nei vortici. Dovunque curvature di venti e correnti a formare ciottoli tondi, rotolati verso la costa concava della morte”.
[…]
“Spiaggia di piccoli ciottoli bianchi, qua e là sporchi di catrame. Riva di mare smeraldo. Poi striscia di verde pallido e poco più in là intenso. Quindi blu oltremarino in fuga verso l’orizzonte separato in lontananza da un’altra banda di verde quasi d’erba. In fondo, linea scura di orizzonte netto a crudele nell’alta luce del sole. In punti lontani, due barche a vela, spicchi bianchi accidentali. Basse sul mare due nuvolette dai contorni accesi. Nel caleidoscopio, pezzettini a strisce di carta colorata, rotolati chissà come nella capsula trasparente del mattino per assestarsi in un unico panorama”.
Questi due passi descrittivi, come molti altri di notevole suggestione estetica, in successione anche nel testo, ne confermano l’ineccepibile strutturazione formale, coerente con il senso, basata sul contrappunto tra una visione cosmica del mare, come forza, movimento, flusso, incessante e inarrestabile vitalità, e la visione individuale, di luoghi e momenti determinati, precisi, legati all’esperienza personale, che comunque tutti in quel fluire rifluiscono e defluiscono (si vedano, a conferma, anche i sintagmi finali dei due passi, evidenziati graficamente).
Il senso di perdita, di smarrimento (come è detto suggestivamente, “nel gomitolo delle forme”), che inevitabilmente coglie l’autore-narratore-protagonista, ribadito nel sogno che egli racconta, e nelle sue considerazioni sulle forme che mutano, e su tutte le cose «che sono e che non sono nell’eterno cambiamento», ma anche sul «non-essere che è nell’essere e questo è il divenire», si stempera nel lucido ricorso alla conoscenza fornita dalle culture conosciute attraverso i viaggi, quelli compiuti con la sola lettura dei grandi testi filosofici e religiosi, e lo studio di opere del passato e più vicine all’autore (si vedano gli echi da T.S.Eliot, ad esempio, del quale Serpieri è straordinario studioso e interprete), e quelli reali nei luoghi visitati nella maturità, quando forse soltanto è possibile la riflessione sui sistemi con cui l’uomo ha cercato di arginare il terrore del caos, di ritrovare e di ricostruire, nel flusso eterno, un disegno armonico e coerente sotteso al tutto o al tutto immanente, che ne giustifichi l’esistenza e le dia un senso.
I viaggi, infatti, narrati – scritti – dal protagonista-narratore all’interno dei vari sistemi culturali, su cui si sofferma interrogandosi in una sua incessante ricerca di senso, coincidono o comunque si accompagnano con quelli concreti in luoghi familiari o remoti, in un affascinante vagare, di cui il lettore diventa compagno e confidente. Da questi viaggi in luoghi, tempi e dimensioni disparate, scaturiscono considerazioni sull’apparente – per l’autore – casualità della vita individuale e una profonda riflessione sulla vita stessa del tutto, che comprende il passato e il presente. Il messaggio trasmesso dai luoghi, dalle credenze, dalle filosofie, dall’antichità ai nostri giorni e nei luoghi più diversi, sembra suggerire che è saggio e positivo abbandonarsi al flusso, come al divenire continuo rappresentato dal mare, che tutto trasporta con sé in un incessante mutare e rinnovarsi.
La conclusione del romanzo, che coincide con la maturità della coscienza centrale del romanzo e ne annuncia anche la vecchiaia e dunque la fine inevitabile, il finale disperdersi dell’onda, ma per comporne o far parte immediatamente di un’altra, e dunque per rinnovarsi, si intitola significativamente “Ouverture”, ovvero “inizio”, “primo tempo” di un’opera, appunto sinfonia di voci, fluire di suoni, e ancora una volta conferma la ciclicità di un disegno, la continuità di un percorso, insieme umano e cosmico, anch’esso iniziato con una “fine” (“All’Ade” è il titolo del capitolo iniziale) che tale non è, o è comunque anche principio e origine.
Autobiografia, racconto, considerazione filosofica, visione esistenziale si amalgamano anche nel finale in questo romanzo profondo e complesso, però avvincente e persino accattivante a livello narrativo, nel quale felicemente si incontrano e si fondono, in un linguaggio ricco e raffinato, liricità e realismo, e i toni di una problematica, ma serena consapevolezza della vita.