Alessandro Serpieri, Mare scritto

20-06-2008
Scaffale di Yvonne Bezrucka

 

 “Anche tu, Michele? Che cosa vuoi sapere tu?
Solo lo snodo o gli snodi, la scelta se c’è” (p. 137).

 

Tra la vita scritta e le vite cancellate (ibidem) il punto di svolta è la scrittura, la testualizzazione degli effimeri e transitori eventi su cui Michele Zandonà, il protagonista di questo libro di Alessandro Serpieri, si interroga. E Michele Zandonà sceglie di fermare il tempo con l’unico strumento che ha a sua disposizione: la scrittura.
      Il senso di questo libro è, a mio parere, da ricercare proprio in questa – unica, e forse inevitabile – scelta. La scelta di non lasciar cadere nell’oblio di questo eterno uguale e apparentemente sempre metamorfico “vuoto” del mare, la vita, che, proteiforme, non si lascia afferrare se non in ripetuti ‘qui e adesso’ del tutto casuali che la mente fatica ad accettare come tali. Il mare, la marea continua del mare, va quindi scritto, consegnato alla memoria dei lettori che a loro volta dovranno interrogarsi sul perché e sul dove sta nascosto il senso, se mai vi fosse, della transitorietà continua in cui la vita ci imprigiona:
Tracce. Scie. Cammini. Mare scritto. Riscritto da altri venti. Sparpagliamento di immagini. Immagini adunche sulle ciglia abbagliate dal sole, immagini laterali in fuga sulla terra dimenticata, immagini aperte come fiori innamorati, immagini chiuse su piccoli delitti, immagini spente ai lati della strada, immagini accese nello specchio dove muoiono e rinascono le immagini. Rotazioni di cerchi ed ellissi, stagioni, giri di luna e di sole, galassie sgranchite nei vortici. Dovunque curvature di venti e correnti a formare ciottoli tondi, rotolati verso la costa concava della morte. (p. 129)
        Metacriticamente il narratore ci avverte che il suo non è un journal intime, non è un’autoanalisi volta a risolvere un problema del sé: non è un’autobiografia questa, ma non è neanche un romanzo, nonostante il sottotitolo ce lo voglia far credere tale.
I lettori allenati alla lettura del romanzo sicuro di sé, il romanzo dell’Ottocento ma anche i suoi derivati modernisti, rimarranno incerti di fronte a quest’opera che, secondo me, appartiene a una categoria a sé, quella dei testi post-darwiniani o neo-darwiniani in questo caso, essendo Darwin, benché scienziato, uno spartiacque forte della narrativa che definisce anch’egli i modi del fare il romanzo, tagliando un solco tra le forme di un prima e le forme di un dopo, leggermente più spostato all’indietro rispetto alla temporalizzazione classica che legge il Modernismo come ‘il’ grande cambiamento verso le forme a dismisura dilatate del cosiddetto realismo interiore e dell’astrazione conseguente. Mossa questa che segna anche il trionfo del tempo personale e relativo ma con questo anche la deriva nel solipsismo, evitata nel testo di Serpieri. E dove e come è evitata? Nel trionfo corale dello spazio lasciato a chi sta con noi nel viaggio della vita e nell’ascolto di questi: nel lacerante dolore e nella vergogna di non poter sempre essere per gli altri ciò che vorremmo essere, come nel toccante sottocapitolo Due anni dopo, la colpa, che registra la pena della sofferta coerenza al se stessi e, conseguentemente, agli altri; così come, avanti nel tempo e nel libro, nel capitolo Il lumaio e la ninfa ci si affida alla sicurezza della comprensione silenziosa di Anna, l’amata moglie, che rimanda, senza dire, a un marriage of true minds.
       Testo neo-darwiniano dicevo in quanto non è più qui rintracciabile un ordine stabilito per nessi causali di un prima e un poi legati da una chiave interpretativa che unisca gli eventi tutti secondo un qualche ordito aprioristico o immanente, e l’assenza di una plot – una delle possibili unità – rende palese il trionfo della varietà. Palinsesto, piuttosto, di cicli; ciclo ontogenetico: infanzia, giovinezza, piena maturità, e la paura dell’inevitabile declino proiettato poi nel familiare, come genealogia possibile, e purtroppo anch’essa senza senso finale alcuno – Zia Bettina e le sue beffe chiedono di essere scritte solo a monito di chi spera inutilmente nel parassitismo – ma anche ciclo filogentico, ciclo di specie: ed ecco allora apparire le guerre del secolo scorso, ma anche quelle di oggi, lì a ricordarci che le passioni primarie dell’uomo – l’odio e l’amore – poco cambiano e che se l’evoluzione è continua può anche essere regressiva, come per il cirripede di Darwin, e tuttavia inevitabile come dimostrano i nostri cugini, i pinguini. Ordine quindi? Semmai ciclico, naturale, come ci dice Virginia Woolf, ma soprattutto indifferente all’uomo come ci ricorda Thomas Hardy. Sessuale? È probabile:
per lui si liberò i capelli raccolti a crocchia con tre o quattro fermagli circolari. Si riversarono tutt’intorno con l’impeto di una massa d’acqua in una cascata equatoriale. Forza originaria in ogni gambo, verde serpente, verde-giungla, e negli orecchi fame rimbombante di animali. (p. 196)
      Ma anche, e non ultimo, il bagaglio del capitale letterario mitico, conoscenza fossile, che ripete all’indietro e conforta nella ripetizione stessa della ricerca del senso (con il rimando alla Bibbia, a Omero, a Medea) attraverso i percorsi del senso antichi e l’ancor più antica domanda sulla divinazione dell’inaccessibile, nell’ansia e nella speranza di poter prevedere un futuro che non sia soltanto quello della tremenda certezza, esistenzialista, della morte.
        E il senso? Eh già, il senso, si chiede Michele, che sia da ritrovarsi nel dio dell’Essere rintracciato dalla madre e dalla nonna e da lui abbandonato? O forse nel dio del Divenire continuo, della reincarnazione buddista, incatenata nel samsara, dove la via di fuga è soltanto la Moksha, l’uscita dal karma per trovare anche qui una pace, un approdo, così da annullare la mente e trovare il senso assoluto del tempo, maestro di cambiamenti? No, nemertes infallibile rimane Proteo.
       E allora Michele esistenzialisticamente sceglie, perché sa che evitare la scelta è comunque effettuare una scelta, la peggiore, quella passiva: meglio allora pensare al passato come ouverture a un’eterna ‘giovinezza del senso’, non essendo possibile quella del corpo, se non a livello mitico immaginativo come per il mitico Esone. Ed ecco quindi il continuo rimettersi in gioco, il riscrivere il mare indifferenti all’arrivo della marea: con i numeri, con i tempi verbali, con i modi verbali, nel linguaggio comunque, o nei vari codici segnici di cui questo è metafora. Il senso quindi nella responsabilità del non-abbandono della ricerca e dell’essere éngagé, attraverso i linguaggi che, seppur plurimi - metafore epistemiche - portano con sé come unica fuga possibile all’insignificanza di un Nulla sempre in agguato. Una vita per i sensi possibili. È detto chiaro, infatti, che è solo il punto di vista, la prospettiva a cambiare le cose: dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande (p. 203), come per Palomar di Calvino, o vista dall’alto adottando la prospettiva animale dell’“occhio laterale, privo di magia” di un hardiano gabbiano (pp. 129-130), o la prospettiva dal basso, acquatica, del mare in cui regredire filogeneticamente fino a diventare i pesci che siamo stati, sapendo che c’è comunque, a suo contrappunto, anche l’acqua organica del Gange, “liscio, sporco, sacro fiume” dal “tanfo della corrente millenaria” percorso dall’“odore acre e dolciastro, di carne umana” (p. 183).
Queste sono le domande che il testo di Serpieri propone, senza tragicità alcuna e quindi fuori dai rimestii dell’anima tragica modernista (penso a Eliot), ma con ironia, ritmando il tempo anche con il registro diffuso e solo apparentemente minore delle canzoni pop, evocatrici di istanti segnati da emozioni passeggere, madeleines foriere di sensazioni di un tempo che fu. Ed ecco allora che il godere di questo tempo, eternamente uguale a se stesso, e il lasciarsi trasportare edonisticamente sulle sue ali sembra essere la risposta per non lasciarsi ingabbiare troppo e imprigionare nella trappola del senso, che solo apparentemente chiarisce, ma che pretenderebbe di poter svelare il senso ultimo, della vita, laddove invece ci sono soltanto: “Tante risposte, e in nessuna il sicuro approdo” (p. 184). E sebbene anche i sensi stanchino – “corpo che appaga non appaga” (p. 117) – non rimane che il lasciarsi andare alla vita e alle sue seduzioni, proteggendosi quindi nel “non-essere del divenire” (p. 137) donandosi felici anche alla non-traduzione, alla non-iconicità delle forme per essere sereni nell’essere sempre ancora lì, a ‘ricercare’ il senso, a volerlo, volerlo, e volerlo ancora soltanto con la certezza, giovanile fiducia del neofita, di poterlo, volendo, trovare; salvo poi, nuovamente, doverlo riconoscere come provvisorio.