Alessio Arena, L'infanzia dele cose

13-08-2009
Oltre Gomorra il realismo magico è napo-latino, di Fabrizio Coscia
 
Lavapiés è il nome di un quartiere della zona vecchia di Madrid, oggi cuore della Spagna multietnica, ma agli inizi degli anni 80 enclave quasi esclusiva della comunità gitana. Quasi, perché a questa si aggiungeva un’altra comunità, più piccola per numero, ma non meno caratteristica: quella dei primi napoletani arrivati in Spagna dopo la dittatura franchista. Ed è a questa singolare commistione gitano-partenopea che è dedicato «L’infanzia delle cose» (Manni, pagg. 278, euro 17), romanzo di esordio del venticinquenne Alessio Arena. Il titolo si riferisce a un modo di dire diffuso nella «parlesia», antico gergo dei musicisti napoletani: quando a qualcuno «gli dà l’infanzia di una cosa», significa «che quella cosa la vede diversa da com’è, la vede com’era una volta, prima di essere così». Gergo, ma anche figura retorica: ad avere l’«infanzia delle cose», infatti, è lo sguardo «diverso» di Antonio Bacioterracino, protagonista e io narrante del romanzo, figlio quindicenne di Patrizio, che non è un nome di finzione, ma la star della prima canzone neomelodica, rivale del primo Nino D’Angelo (che scrisse per lui come Gigi Finizio), il cui corpo stroncato da un’overdose di eroina tagliata male venne scoperto nel 1984 in una macchina a Barra. Nel romanzo la morte di Patrizio, ordinata dal boss del quartiere, costringerà la famiglia Bacioterracino - Antonio con la sorella, sua madre e lo zio - a scappare dal natio quartiere della Sanità a Madrid. I Bacioterracino vengono così scaraventati nella insolita realtà gitana del Barrio Lavapiés, tra la piccola e caparbia comunità di magliari napoletani, che fanno capo al ristorante Golfo di Napoli e al magazzino del camorrista Calimero, «il covo di tutti i napoletani che vengono qui a Madrid per tentare l’avventura di vivere meglio, cioè di morire meglio». Siamo lontanissimi dal filone post-Gomorra e dagli stereotipi del realismo truculento di tanta recente narrativa napoletana. «L’infanzia delle cose» è un romanzo fuori dal coro, un esordio sorprendente - data anche la giovane età dell’autore, già talento maturo - capace di materializzare un universo poetico e surreale, come scopriranno i lettori quasi subito, dopo un incendio catastrofico che segnerà il destino della famiglia Bacioterracino e dei loro compaesani. È un universo dove i morti ballano in mezzo ai vivi, i matrimoni si trasformano in funerali collettivi, i camorristi ascoltano Brahms, i cani parlano e i fiumi spuntano dal nulla: nel tracciarlo con mano sicura, Arena s’ispira al realismo magico della letteratura ispanoamericana, attinge ambiziosamente a «Pedro Paramo», capolavoro di Juan Rulfo, omaggia «Rayuela» di Julio Cortazar, nel personaggio della Maga, si rifà al barocco picaresco di Reinaldo Arenas e ai voli onirici di Lezama Lima, ma si nutre anche del lirismo funambolico del «Ragazzo morto e le comete» di Parise, del cinema di Kusturica e Tim Burton, riuscendo a distillare da tutto ciò uno stile personalissimo, una lingua che si fa musica, dove la morte-in-vita o vita-in-morte della piccola comunità di napoletani della Sanità in trasferta madrilena diventa, al di là di ogni giudizio morale, struggente metafora della disperata vitalità un popolo, della funerea e insopprimibile volontà di sopravvivenza di ogni diversità.