01/11/2009 - Coolclub.it
Incredibile eppur realistico, di Dario Goffredo
07/03/2010 - Nuova stagione
Il ritorno del viaggio, di Doriano Vincenzo De Luca
All’etica del viandante Antonio contrappone l’etica del pellegrino. La Scrittura ci dice che all’inizio del cammino di Abramo, padre di tutti i credenti della storia e modello di vita responsoriale, c’è una promessa. Questa promessa cambia la storia umana in storia di salvezza divina, e trasforma il vagare di ogni nomade della terra in un cammino di pellegrini del cielo. Ad Antonio padre Ciccone dirà la stessa quando gli spiega la musica di Brahms e lui conserverà questo ricordo fino ad esclamare: “La Bibbia è come la musica di Brahms... Ti legge lei a te”. La vita umana ha una meta, una finalità intrinseca, e la vocazione dell’uomo consiste precisamente nel raggiungimento di questa meta. Giustamente, è stato scritto da Anatole France, che il caso è lo pseudonimo di Dio quando egli non si firma per esteso. E questo il piccolo Bacioterracino lo sa e lo sa anche Alessio Arena: la vera identità umana trascende il tempo e la cultura. È scritta sulla pietruzza personale che Dio consegna ad ogni uomo, e che nessuno conosce e potrà mai duplicare o clonare (Ap 2, 17). Questa pietruzza, trasformata in una umanità compiuta e felice, è il nostro biglietto di viaggio. “E poi basta” non è la fine, ma il prezzo per un secondo viaggio.
Indisciplinato, funambolico, irregolare, di Filippo Nocosia
Il barocco napoletano di Arena, di Alberto Pellegatta
Book-in, di Manuel Masi
Si tratta in realtà di una espressione usata nella “parlèsia”, gergo creato dai musicisti di Napoli e che si mantiene ancora vivo in alcuni contesti popolari della città. Avere l'infanzia di una cosa vuol dirne coglierne un ricordo falsato, che è anche il senso magico che sta dentro a ogni cosa, la sua dimensione poetica, il suo nome. Antonio, il protagonista, lo spiega così: “Quando a uno gli dà l’infanzia di una cosa significa che quella cosa la vede diversa da com’è, la vede come era una volta, prima di essere così”.
Un rapporto ossessivo è quello che stabilisco involontariamente con la maggior parte dei miei personaggi. Quando comincio a lavorare a un romanzo, o a un racconto, esco per strada a scattare fotografie ai passanti, cerco fisionomie e gestualità che umanizzino in qualche misura i protagonisti delle future storie che racconterò. Nel caso di questo romanzo e del personaggio di Antonio ho preso molto dai ragazzini del mio quartiere di origine, a Napoli, soprattutto attraverso l'esperienza di un laboratorio di musica che ho tenuto in una scuola. Del resto, Antonio, che parla la lingua dei tanti ragazzini che ho incontrato, è anche un provetto violinista, la mia grande frustrazione di adolescente.
Tutti i personaggi del romanzo conformano un corteo di disperati, una fila indiana di morti viventi che non aspettano altro se non la loro definitiva sepoltura, così come racconto in una scena del libro. Sono persone che si portano addosso ferite insanabili, maltrattate dal degrado sociale in cui hanno sempre vissuto e che tentano una fuga, un azzardato ritorno alle origini, alla materia, organizzandosi attorno a un inedito Golfo di Napoli che costruiscono sulle spoglie di un vecchio ristorante cinese, in una strada del centro di Madrid. Sono anch'io figlio di emigranti, e la storia della mia famiglia ha di certo ispirato, anche se in piccola parte, la struttura squinternata di questa storia.
Gli consiglierei di leggere, innanzitutto, quello che gli pare, imparando così che spesso la normalità non la fa la letteratura, che è gelosa della sua scienza. Gli consiglierei di stare quanto più possibile in mezzo alla gente, e poi lasciarsi un po' di spazio per Puig, Capote, Lezama Lima e altri piacevoli mal di testa.
Un bugiardo compulsivo e un feticista della parola, delle sue astrazioni quotidiane e delle sue polifonie che sembrano non avere mai fine. Pero il resto cerco di comportarmi come una persona normale. Vivo in un attico e quando mi è finita l'acqua non esco a comprarla nemmeno per sogno. Bevo Fanta Lemon, anche se quella bottiglia è aperta da un mese.
Da piccolo vivevo lontano da tutte le cose, ma soprattutto lontano dai miei genitori che, se non erano in viaggio, vivevano in un altro paese o in un posto che io non conoscevo. A mia madre scrivevo interminabili lettere d'amore e di disperazione. Insudiciavo diverse brutte copie prima di scrivere la versione definitiva che includeva sempre qualche disegno, e mischiava stampatello e corsivo come nell'apparato di citazioni di un vero libro. Mi inventavo molte cose su di me e sulla mia famiglia, spingendomi spesso ancora più in là (la scuola, il quartiere, l'intera città di Napoli). Tutte cose che puntualmente mia nonna smentiva a telefono. Mia madre conserva tutte queste lettere in una casetta di bambù che si apre da una fessura del tetto e che dentro è imbottita con una seta grigia. Io la chiamavo la casa di Peter Pan, e questo era già di per sé assolutamente magico.
Scrivo ciò che sono stato capace di vivere senza viverlo a fondo. Attraverso una storia creata a partire da una esperienza personale stabilisco una conversazione selvaggia con me stesso, e con ciò che mi piacerebbe essere, cuestionando le manie, le perversioni, i traguardi, e trasfigurandoli a tal punto di non riconoscermi più in essi. Così comincio a vederne altre, di storie, altri personaggi, come burattini, che in un improvviso crampo della mano che da loro vita, cominciano a parlare sa soli, e con voci assolutamente sconosciute.
Mi piace scrivere per vendicarmi; a volte per seminare il panico.
La malleabilità dei sui incantesimi, l'essere una cosa giusto quando può sembrarne un'altra.
Mi piace che la scrittura parli mille lingue e una sola nello stesso tempo, che testimoni la verità della bugia, e che sia la lancia nel costato di Cristo.
Quando comincio a lavorare a un progetto (che sia un racconto, un romanzo, o un qualsiasi altro testo narrativo) preferisco scegliere un posto rumoroso della città, il tavolo di un bar, per esempio, da dove possa vedere la gente passare, o nella stessa metropolitana, che ne so... Una volta stavo appuntando delle cose su un pezzo di carta seduto a un bar del Raval che è decorato con delle gigantografie di fotoromanzi e piume di pavone e pelli di animali. Lì mi sentivo qualcosa di molto simile a uno scrittore appetitosamente moderno e allora quando una ragazza mi chiese cosa stessi scrivendo (doveva essere una francese o una cosa così) io avrei voluto che fosse rimasta di stucco. “Scrivo quello che non vedo” avrei voluto dirle, ma mi feci rosso rosso e non mi uscì nemmeno una parola.
Questo sì, quando finisco di darmi tante arie e mi metto a lavorare sul serio, ho bisogno della mia stanza (la scrivania e il letto). Se poi c'è ancora della Fanta Lemon mi sento un vero privilegiato.
Verso un cammino oscuro e rischioso. Ne sono assolutamente cosciente. Non esiste né esisterà mai una pianificazione previa nel mio lavoro, ed è per questo che spesso romanzi diventano racconti brevi, e racconti brevi diventano canzoni, e molte canzoni poi me le dimentico e pam, mi deprimo e me ne vado a correre in spiaggia.
Come scrittore mi piace destrutturare e demitificare le tradizioni, tagliargli la coda al linguaggio che, come quelle lucertole prepotenti, poi continua a correre per conto suo, e se ne inventa un'altra perché torni a crescergli nel corpo.
Come scrittore mangio sempre male e fuori orario, mi preoccupo per la mia salute e per le mie tasche. A volte mi sogno a Faulkner o qualche altro scrittore meno conosciuto, come Rinaldo D'Aquino, che stanno leggendo una cosa mia, e che poi mi guardano e non smettono di vomitare insulti.
Probabilmente perché mi piace “aver scritto”, nel senso che il vero piacere sta poi nella lettura del proprio lavoro finito, e anche perché mi piace che mi leggano, arrivare a parlare con la gente in questo modo. Scrivo perché non sono un buon oratore, non cucino granché bene, e nemmeno sono uno sportivo. Forse perché ho sempre paura di essere solo, ma soprattutto scrivo perché non so suonare il violino.
Perché qualcuno che non rivedrò mai più sappia che sono ancora lì.
Sono nato a Napoli, nell'84, e non so quando ci tornerò.
Il mio primo romanzo è L'infanzia delle cose (Manni, 2009).
Il secondo, che uscirà tra qualche mese, è Il mio cuore è un mandarino acerbo (Zona/Novevolt 2010).
Come cantante ho partecipato a La versione dell'acqua di Luigi Romolo Carrino (Meridiano zero, 2009) e ho scritto L'uomo con la finestra in petto (Magma, 2009)
A Barcellona, dove vivo, sono la voce e l'autore di un gruppo, e studio letteratura comparata all' università Autònoma
Mi sveglio ogni giorno alle sette perché mi entra il sole negli occhi.
Dico sempre che la tapparella è un vezzo e una volgarità da serial killer.