Alessio Arena, L'infanzia delle cose

01-11-2009

01/11/2009 - Coolclub.it
Incredibile eppur realistico, di Dario Goffredo

Forse le affinità tra il rione Sanità di Napoli e il quartiere Lavapiés di Madrid, il quartiere dei gitani, non sono poche. E non sto parlando di quei semplici e banali luoghi comuni che potrebbero venire in mente a chiunque associando due popolazioni così diverse eppure forse così vicine, almeno nell’immaginario comune, per colori, suoni, riti. Ne L’infanzia delle cose di Alessio Arena, uscito per Manni nella bella collana Punto G, di luoghi comuni non ce n’è nemmeno uno. Ci sono grandi invenzioni piuttosto. Linguistiche, in un coloratissimo e dolcissimo pastiche tra lingua adolescenziale napoletana, spagnolo e gitano. Di personaggi, uno più incrediblie dell’altro eppure tutti realistici. Di situazioni, che si muovono in equilibrio perfetto tra comicità, tragedia, umorismo e commozione sincera. Il tutto legato da una magia che protegge e spaventa, che incuriosisce e ammalia. La storia è quella di Antonio, che racconta in prima persona le sue avventure, quindicenne napoletano che dopo la morte per overdose dle padre, cantante neomelodico in odor di camorra, si trasferisce con la madre e la sorella a Madrid, nel quartiere di Lavapiés, appunto, in una strada dove tutti i negozi sono stati rilevati dai gitani, che “sono i padroni del mercato. I gitani sono i padroni di tutti i negozi di Lavapiés. I gitati sono i padroni di Lavapiés”. La vicenda si sviluppa scoppiettante in un crescendo, orchestrato perfettamente da Alessio Arena, di situazioni e colpi di scena, dove si inseguono e rincorrono violini e cani, incendi e scarafaggi, cadaveri e monnezza.

07/03/2010 - Nuova stagione
Il ritorno del viaggio, di Doriano Vincenzo De Luca

L’infanzia delle cose è il primo romanzo di Alessio Arena, giovane e versatile artista napoletano, pubblicato da Manni editore nella collana Punto G. Racconta la storia, a metà tra vero e fantastico, autobiografico e costruito, del quindicenne Antonio Bacioterracino, costretto a trasferirsi con il resto della famiglia nel quartiere di Lavapiés a Madrid, con la complicità di padre Ciccone, a seguito della morte del padre, Patrizio, cantante neomelodico, invischiato in faccende pubblicoprivato con la camorra della Sanità.
Il romanzo ruota intorno a tre punti chiave che ne danno il senso e il significato: il linguaggio, definito “napo-latino”, frutto della “parlesia”, l’antica e criptica lingua adoperata dai musicisti napoletani per comunicare fra loro in tutta discrezione, che dà al romanzo un tono particolarissimo e magico; il grottesco, nel senso etimologico del termine (fa riferimento alle scritte ritrovate negli edifici antichi seppelliti sottoterra, e questo ricorda i tanti rifugi allocati nella narrazione), ma che si può estendere al fantastico e all’irregolare, due categorie di pensiero che riempiono ogni pagina del libro; l’originale, nel senso di origine (originém) e appartenenza (la desinenza -alem) in riferimento ad un popolo, alle sue tradizioni, alla sua cultura, alla sua musica, alla sua religione, al suo profano.
Ma una categoria che più di ogni altra determina il racconto e, in qualche modo, ne cambia il verso è il “viaggio”: la trasmigrazione verso Lavapiés è anzitutto un andare indietro, un ritornare ai primordi, un impossessarsi della materia, un tuffarsi nell’infanzia delle cose, nel tentativo di rendere visibili e concrete forme e dimensioni di un’esistenza nuova. Ma l’impedimento è antropologico-culturale, a dispetto dei tentativi che l’io narrante, il giovane Antonio pone attraverso il suo violino e la sua musica, per cui è come se il cordone ombelicale con il male di Napoli non fosse mai stato tagliato.
Il viaggio verso il “paese felice”, in cui si spera siano assenti le distinzioni dei possessi privati e familiari, si manifesta, allora, come regressus ad uterum, come incapacità di crescere.
La vita e la morte si convertono l’una nell’altra e, nella ciclicità del riassorbimento e della rigenerazione, la morte assomiglia più ad un viaggio senza ritorno, ad una liberazione che alla redenzione di sé.
L’etica che deriva da questa situazione è un’etica che dissolve certezze e recinti e si configura come un’etica del viandante, che non si appella al diritto o alla norma ma all’esperienza.
I protagonisti, deterritorializzati, hanno riferimenti occasionali, si appellano alla contigenza più che al progetto. Tale etica non dispone di mappe, ma inventa il percorso di volta in volta, in una sorta di navigazione esistenziale a vista. Nel tempo della provvisorietà questo cambia la percezione del tempo «profano», schiacciandolo
sul presente, uccidendo la storia e facendo nascere la cronaca.
L’unico a combattere questo stato delle cose è Antonio, che si oppone alla censura del ricordo, alla cultura dell’identico.
Egli sa, glielo ha insegnato padre Ciccone, che uomini e popoli senza tradizione e senza memoria storica sono destinati alla fine. Là dove non c’è alcuna tradizione, ivi comincia il tempo della povertà e il cammino verso la disumanità.

All’etica del viandante Antonio contrappone l’etica del pellegrino. La Scrittura ci dice che all’inizio del cammino di Abramo, padre di tutti i credenti della storia e modello di vita responsoriale, c’è una promessa. Questa promessa cambia la storia umana in storia di salvezza divina, e trasforma il vagare di ogni nomade della terra in un cammino di pellegrini del cielo. Ad Antonio padre Ciccone dirà la stessa quando gli spiega la musica di Brahms e lui conserverà questo ricordo fino ad esclamare: “La Bibbia è come la musica di Brahms... Ti legge lei a te”. La vita umana ha una meta, una finalità intrinseca, e la vocazione dell’uomo consiste precisamente nel raggiungimento di questa meta. Giustamente, è stato scritto da Anatole France, che il caso è lo pseudonimo di Dio quando egli non si firma per esteso. E questo il piccolo Bacioterracino lo sa e lo sa anche Alessio Arena: la vera identità umana trascende il tempo e la cultura. È scritta sulla pietruzza personale che Dio consegna ad ogni uomo, e che nessuno conosce e potrà mai duplicare o clonare (Ap 2, 17). Questa pietruzza, trasformata in una umanità compiuta e felice, è il nostro biglietto di viaggio. “E poi basta” non è la fine, ma il prezzo per un secondo viaggio.

23/04/2010 - www.luminol.it
Indisciplinato, funambolico, irregolare, di Filippo Nocosia

 

Il corpo di Patrizio Bacioterracino, reo di aver intrattenuto una relazione amorosa con Domenico Cimarosa, un travestito appartenente alla famiglia di camorristi che comanda nel rione Sanità, viene trovato senza vita dentro una macchina a Barra, nella periferia ovest di Napoli. Da questo momento tutta la famiglia Bacioterracino è in pericolo.
Così nel cuore della notte, grazie all’aiuto di Padre Ciccone, consigliere spirituale e mentore musicale del quartiere, il figlio Antonio, assieme la madre, la sorella Erika e lo zio Birra Peroni, lasciano Napoli per rifugiarsi in Spagna, a Madrid.
Da qui parte il racconto de L’infanzia delle cose, romanzo d’esordio di Alessio Arena. A raccontarci la storia di questa fuga è Antonio Bacioterracino, il figlio di Patrizio, anche lui musicista, violinista ad essere precisi, di grande talento.
I fuggiaschi arrivano a Madrid nel Barrio di Lavapies, dove una piccola comunità di napoletani, innestata in quella dominante di origine gitana, ruota attorno a Il golfo di Napoli di Enrico Castravelli, ristorante e ristoro dell’anima, cantiere metafisico in cui i lavori di ristrutturazione seguiti un incendio che lo ha distrutto, sono incessanti e barocchi.
In questa comunità di immigrati, Antonio vive la sua crescita personale, come nel più classico dei romanzi di formazione, e misura la distanza dal passato, come se crescere fosse accorgersi che le cose restano dietro di noi, cambiano e ci lasciano: «Quando a uno gli dà l’infanzia di una cosa significa che quella cosa la vede diversa da com’è, la vede come era una volta, prima di essere così».
Arena si dimostra uno scrittore dalla grande potenza immaginativa e visiva, capace di trasformare una storia di Camorra, in un’avventura esotica e divertente, soprattutto grazie a una lingua che mescola italiano e dialetto napoletano, che, anche se a volte esagera in figurazioni o costruzioni retoriche, ha comunque il pregio di essere naturale espressione di talento e musicalità.
La trama, invece, è costruita in modo meno puntuale a causa della divisione in capitoli, che penalizza il racconto: per una scrittura così libera sarebbe stata  auspicabile una maggiore contestualizzazione, soprattutto nei flashback.
Rimane comunque una scrittura coraggiosa che sa spaziare dai piccoli particolari come la puzza dei piedi del padre, fino alle scene collettive, con i suoni, le musiche, di una festa in cui si canta e si balla una danza sfarzosa e macabra. Un mondo che non è mai fermo, dove i cani, le famiglie, le passioni e le teste staccate dal corpo se ne vanno per i fatti loro.
Indisciplinato, funambolico, irregolare come tutti i veri talenti.

 

05/06/2010 - La Provincia di Como
Il barocco napoletano di Arena, di Alberto Pellegatta
Il romanzo di Alessio Arena segue una struttura cristologica. Il protagonista è costretto a riparare in Spagna per le frequentazioni camorristiche del padre, muovendosi tra "munnezza" e gitani: «In mezzo alla gente che scendeva al piano inferiore della linea rosa, quella che arriva fino a fuori alla città, a Barajas, dove sta il magazzino di Calimero, il covo di tutti i napoletani che vengono qua a Madrid per tentare l'avventura di vivere meglio, cioè di morire meglio? sta pensando ai pensieri difficili che ti vengono sottoterra, sotto a questa città che non finisce mai». Si apre anche a slanci lirici: la pelle che sembra attaccata «con lo scotch» o i baffi «di sughero». Una storia cruda, a tratti feroce, che custodisce un senso più profondo: «mi metto paura di una cosa che sta in tutte le cose e che pure se non la vedi lo sai che ci potrebbe stare». Un nuovo barocco napoletano.

 

 
20/06/2010 – www.gayin.tv
Book-in, di Manuel Masi

 

L’infanzia delle cose (Manni 2009) di Alessio Arena è un romanzo forte. Ambientato negli anni ottanta, è la storia di Antonio Bacioterracino, un quindicenne che vive a Napoli, nel Rione Sanità. Suo padre, cantante che ha contatti con la camorra, muore per un’overdose. Allora, la sua famiglia, Antonio, sua madre, sua sorella e lo zio, è obbligata a trasferirsi a Madrid, precisamente nel quartiere di Lavapiés, dove è stipata la comunità gitana. Questa nuova realtà porterà dei cambiamenti nelle dinamiche familiari e nell’animo del protagonista. La scrittura di Alessio Arena ha una verve visionaria e surreale a tratti, che lo distanzia di molto dal realismo crudo di tanta narrativa degli ultimi tempi che porta in primo piano il tema della mafia. Arena è un giovane scrittore e cantante napoletano, collabora con varie antologie e  riviste italiane, quali “Nuovi Argomenti”, “Linus” e il portale di letteratura “Nazione Indiana”. Questo suo primo romanzo ha vinto tra l’altro il premio “Giuseppe Giusti Opera Prima”. Attualmente vive in Spagna, dove scrive teatro e dove pubblicherà presto il suo terzo libro, il primo in lingua spagnola, “Todos los jueves del mundo”.
Il titolo del libro è la prima di una serie di metafore, forma retorica che usi spesso nella tua scrittura, ma è anche la più bella. Cos’è “L’infanzia delle cose”?
Si tratta in realtà di una espressione usata nella “parlèsia”, gergo creato dai musicisti di Napoli e che si mantiene ancora vivo in alcuni contesti popolari della città. Avere l'infanzia di una cosa vuol dirne coglierne un ricordo falsato, che è anche il senso magico che sta dentro a ogni cosa, la sua dimensione poetica, il suo nome. Antonio, il protagonista, lo spiega così: “Quando a uno gli dà l’infanzia di una cosa significa che quella cosa la vede diversa da com’è, la vede come era una volta, prima di essere così”.
Il protagonista e voce narrante, Antonio Bacioterracino, vive una vita fuori dal comune e quasi rocambolesca, filtrata dai suoi occhi. Quale è il tuo rapporto con questo personaggio?
Un rapporto ossessivo è quello che stabilisco involontariamente con la maggior parte dei miei personaggi. Quando comincio a lavorare a un romanzo, o a un racconto, esco per strada a scattare fotografie ai passanti, cerco fisionomie e gestualità che umanizzino in qualche misura i protagonisti delle future storie che racconterò. Nel caso di questo romanzo e del personaggio di Antonio ho preso molto dai ragazzini del mio quartiere di origine, a Napoli, soprattutto attraverso l'esperienza di un laboratorio di musica che ho tenuto in una scuola. Del resto, Antonio, che parla la lingua dei tanti ragazzini che ho incontrato, è anche un provetto violinista, la mia grande frustrazione di adolescente.
Ci sono dei personaggi molto bizzarri ne “L’infanzia delle cose”, come lo zio di Antonio, Birra Peroni o la sorella Erika. Come li hai creati? C’è qualcuno che li ha ispirati?
Tutti i personaggi del romanzo conformano un corteo di disperati, una fila indiana di morti viventi che non aspettano altro se non la loro definitiva sepoltura, così come racconto in una scena del libro. Sono persone che si portano addosso ferite insanabili, maltrattate dal degrado sociale in cui hanno sempre vissuto e che tentano una fuga, un azzardato ritorno alle origini, alla materia, organizzandosi attorno a un inedito Golfo di Napoli che costruiscono sulle spoglie di un vecchio ristorante cinese, in una strada del centro di Madrid. Sono anch'io figlio di emigranti, e la storia della mia famiglia ha di certo ispirato, anche se in piccola parte, la struttura squinternata di questa storia.
Spesso chi esordisce con una storia a tematica LGBT è etichettato come “scrittore gay”. Che ne pensi?Confido nell'intelligenza dei miei lettori che in questo romanzo abbiano colto ben altro, che si siano fatti coinvolgere dalla sorpresa della lingua, che abbiano approfondito la più superficiale sensazione della trama. Per il mio esordio ho voluto raccontare, tra le altre cose, il viaggio del protagonista attraverso la scoperta della sua identità. Ma non si tratta di una semplice identità sessuale. Quella di Antonio è una diversità ben più profonda, trascendente. Una diversità che abita il suo sentire di artista con conseguenze più o meno disastrose, che mozza le radici, sradica ogni appartenenza, che dà in pasto le sue mani agli scarafaggi. ( “E allora se io non sono quelle mani che loro si stanno mangiando, se io non sto sopra a questo letto che gli scarafaggi fanno più pesante di quello che è, dove sto io? Dove sono andato a finire?”)
Qual è il libro che consiglieresti a un giovane che ha scoperto da poco la sua omosessualità e cerca di capire sé stesso?
Gli consiglierei di leggere, innanzitutto, quello che gli pare, imparando così che spesso la normalità non la fa la letteratura, che è gelosa della sua scienza. Gli consiglierei di stare quanto più possibile in mezzo alla gente, e poi lasciarsi un po' di spazio per Puig, Capote, Lezama Lima e altri piacevoli mal di testa.
 
 
 

Questa è la mano di Alessio, di Christian Mascheroni
 
Grazie a "Ti racconto un libro" ho imparato che, dietro alla semplicità delle domande, c'è la potenza di chi mi risponde. Ecco perchè, fra le interviste che preferisco, quelle delle W che cadenzano ogni puntata si sono trasformate in esperienze umane indimenticabili. Ed ecco perchè a "Ti racconto un libro" ci siamo posti di non recensire libri, di non incensire nessuno, di non acclamare best sellers, ma di dare spazio e tempo agli scrittori, agli uomini e alle donne che sono parola, perchè la scrittura vive di vita, e la vita è vissuta, letterariamente e non, dagli scrittori. Dare spazio e tempo. Meritocraticamente.  A chi ha talento, passione, e a chi può mostrare, senza dimostrare, che il nostro può essere, narrativamente, il Bel Paese. Per questo motivo, da oggi, sono felice di inaugurare le nuove, esclusive interviste W qui sul blog di Ti racconto un libro, incominciando da un giovane scrittore, nonché artista e musicista, che ha debuttato nel 2009 con il romanzo "L'infanzia delle cose" (Manni): Alessio Arena.
 
Chi è Alessio Arena, scrittore?
Un bugiardo compulsivo e un feticista della parola, delle sue astrazioni quotidiane e delle sue polifonie che sembrano non avere mai fine. Pero il resto cerco di comportarmi come una persona normale. Vivo in un attico e quando mi è finita l'acqua non esco a comprarla nemmeno per sogno. Bevo Fanta Lemon, anche se quella bottiglia è aperta da un mese.
Quando hai scoperto la magia della scrittura?
Da piccolo vivevo lontano da tutte le cose, ma soprattutto lontano dai miei genitori che, se non erano in viaggio, vivevano in un altro paese o in un posto che io non conoscevo. A mia madre scrivevo interminabili lettere d'amore e di disperazione. Insudiciavo diverse brutte copie prima di scrivere la versione definitiva che includeva sempre qualche disegno, e mischiava stampatello e corsivo come nell'apparato di citazioni di un vero libro. Mi inventavo molte cose su di me e sulla mia famiglia, spingendomi spesso ancora più in là (la scuola, il quartiere, l'intera città di Napoli). Tutte cose che puntualmente mia nonna smentiva a telefono. Mia madre conserva tutte queste lettere in una casetta di bambù che si apre da una fessura del tetto e che dentro è imbottita con una seta grigia. Io la chiamavo la casa di Peter Pan, e questo era già di per sé assolutamente magico.
Che cosa ti piace scrivere?
Scrivo ciò che sono stato capace di vivere senza viverlo a fondo. Attraverso una storia creata a partire da una esperienza personale stabilisco una conversazione selvaggia con me stesso, e con ciò che mi piacerebbe essere, cuestionando le manie, le perversioni, i traguardi, e trasfigurandoli a tal punto di non riconoscermi più in essi. Così comincio a vederne altre, di storie, altri personaggi, come burattini, che in un improvviso crampo della mano che da loro vita, cominciano a parlare sa soli, e con voci assolutamente sconosciute.
Mi piace scrivere per vendicarmi; a volte per seminare il panico.
Che cosa ti piace della scrittura?
La malleabilità dei sui incantesimi, l'essere una cosa giusto quando può sembrarne un'altra.
Mi piace che la scrittura parli mille lingue e una sola nello stesso tempo, che testimoni la verità della bugia, e che sia la lancia nel costato di Cristo.
Dove scrivi?
Quando comincio a lavorare a un progetto (che sia un racconto, un romanzo, o un qualsiasi altro testo narrativo) preferisco scegliere un posto rumoroso della città, il tavolo di un bar, per esempio, da dove possa vedere la gente passare, o nella stessa metropolitana, che ne so... Una volta stavo appuntando delle cose su un pezzo di carta seduto a un bar del Raval che è decorato con delle gigantografie di fotoromanzi e piume di pavone e pelli di animali. Lì mi sentivo qualcosa di molto simile a uno scrittore appetitosamente moderno e allora quando una ragazza mi chiese cosa stessi scrivendo (doveva essere una francese o una cosa così) io avrei voluto che fosse rimasta di stucco. “Scrivo quello che non vedo” avrei voluto dirle, ma mi feci rosso rosso e non mi uscì nemmeno una parola.
Questo sì, quando finisco di darmi tante arie e mi metto a lavorare sul serio, ho bisogno della mia stanza (la scrivania e il letto). Se poi c'è ancora della Fanta Lemon mi sento un vero privilegiato.
Dove stai andando come scrittore?
Verso un cammino oscuro e rischioso. Ne sono assolutamente cosciente. Non esiste né esisterà mai una pianificazione previa nel mio lavoro, ed è per questo che spesso romanzi diventano racconti brevi, e racconti brevi diventano canzoni, e molte canzoni poi me le dimentico e pam, mi deprimo e me ne vado a correre in spiaggia.
Come scrittore mi piace destrutturare e demitificare le tradizioni, tagliargli la coda al linguaggio che, come quelle lucertole prepotenti, poi continua a correre per conto suo, e se ne inventa un'altra perché torni a crescergli nel corpo.
Come scrittore mangio sempre male e fuori orario, mi preoccupo per la mia salute e per le mie tasche. A volte mi sogno a Faulkner o qualche altro scrittore meno conosciuto, come Rinaldo D'Aquino, che stanno leggendo una cosa mia, e che poi mi guardano e non smettono di vomitare insulti.
Perché scrivi?
Probabilmente perché mi piace “aver scritto”, nel senso che il vero piacere sta poi nella lettura del proprio lavoro finito, e anche perché mi piace che mi leggano, arrivare a parlare con la gente in questo modo. Scrivo perché non sono un buon oratore, non cucino granché bene, e nemmeno sono uno sportivo. Forse perché ho sempre paura di essere solo, ma soprattutto scrivo perché non so suonare il violino.
Perché continuerai a scrivere?
Perché qualcuno che non rivedrò mai più sappia che sono ancora lì.
 
Alessio Arena, la tua nota biografica
Sono nato a Napoli, nell'84, e non so quando ci tornerò.
Il mio primo romanzo è L'infanzia delle cose (Manni, 2009).
Il secondo, che uscirà tra qualche mese, è Il mio cuore è un mandarino acerbo (Zona/Novevolt 2010).
Come cantante ho partecipato a La versione dell'acqua di Luigi Romolo Carrino (Meridiano zero, 2009) e ho scritto L'uomo con la finestra in petto (Magma, 2009)
A Barcellona, dove vivo, sono la voce e l'autore di un gruppo, e studio letteratura comparata all' università Autònoma
Mi sveglio ogni giorno alle sette perché mi entra il sole negli occhi.
Dico sempre che la tapparella è un vezzo e una volgarità da serial killer.