Torna in libreria l’iper-realismo di Alessio Arena, di Domenico Naso
Leggendo L’infanzia delle cose, edito da Manni nel 2009, eravamo rimasti folgorati. Sì, lo stile crudissimo e carnale di Alessio Arena, giovane scrittore e cantante napoletano “trapiantato” in Spagna, ci aveva colpito. In quel romanzo di esordio c’era tutta la cifra stilistica di un ragazzo poco più che venticinquenne. Già intriso di una personalità letteraria rara ai nostri giorni, con un coraggio di osare, di spingersi al di là del consueto, che stupisce, affascina, un po’ sconvolge e addirittura spaventa. Ne L’infanzia delle cose, infatti, si notava già l’embrione vitalissimo di un iper-realismo partenopeoche raccontava tutti i drammi, le miserie, i sogni, le fughe dalla realtà, di un ragazzino napoletano costretto a trasferirsi in Spagna con la famiglia per sfuggire alla sete di vendetta della camorra dopo la morte del padre. La narrazione prendeva le mosse, dunque, da un episodio maledettamente terreno e napoletano, concreto e sanguinoso. Eppure, pagina dopo pagina, si apre davanti allo spettatore uno spettro infinito di tonalità fantasiose e oniriche, visioni e apparizioni. È un realismo che si fa quasi fantasy. È qui che l’iper-realismo dei bassifondi napoletani si unisce carnalmente a un approccio onirico molto simile a quello che ci ha regalato lo scrittore cubano Reinaldo Arenas.
È pornografico, il primo Arena. È scandaloso. È imperfetto. È persino sgrammaticato, omaggio voluto ad una napoletanità che è viscera, che è sangue e merda, che è totalizzante essenza di se. È sesso squallido e sudato. È sogno a occhi aperti. È incubo realissimo. È tutto questo, il primo Arena. Alla fine del romanzo, non sai bene cosa hai letto, non sei certo di aver capito perfettamente la trama. Ma sai di certo di aver appena concluso un’esperienza narrativa senza precedenti, che ti ha invaso l’anima e la mente. Che ti ha fatto piangere struggenti lacrime e ridere come un pazzo. Ti ha fatto vivere, insomma, questo scugnizzo napoletano che scrive in maniera così strana, atipica, sensuale. A guardare le foto sul suo profilo Facebook, in effetti Alessio Arena te lo immagini proprio così: sguardo vispo da napoletano che potrebbe fotterti da un momento all’altro, viso pulito, e poi chitarre, microfoni, concerti, presentazioni di libri. Multitasking, questo Arena.
E allora, quando sai che è uscito il secondo romanzo (Il mio cuore è un mandarino acerbo, Zona Editore), hai una voglia irresistibile di verificare, di capire se L’infanzia delle cose era solo l’esordio libero e un po’ anarchico di uno scrittore in erba o la vera cifra narrativa di un ragazzo che sa e vuole scrivere solo in quel modo. Ti aspetti tanto, e tanto ricevi in cambio. Perché Il mio cuore è un mandarino acerbo ci offre il solito Arena, così carnale e sensuale da turbare il lettore, così passionalmente napoletano da farti chiedere se, in fondo, il vero ragazzo dei bassi napoletani non sia davvero lui, e non i guappi che scorrazzano in tre sul motorino senza casco e ogni tanto sparano qualche colpo di pistola. È lui la vera Napoli? Sesso, sogni, miserie e fantasia? Fatto sta che nel suo secondo romanzo, Arena riesce a mettere insieme Amanda Lear e Nino D’Angelo, Marsiglia e Procida, il carcere e un travestito. E in mezzo tante esperienze di vita, anzi di vitaccia. Sì, è il solito Arena. È il sanguigno scugnizzo che avevamo conosciuto un paio di anni fa. Anche stavolta chiudi il libro convinto che non ti ricapiterà più di leggere qualcosa di simile. O forse si, ti ricapiterà quando un’altra piccola casa editrice deciderà di pubblicare un altro suo romanzo. Chissà perché i grandi editori non lo hanno ancora messo sotto contratto… Forse, semplicemente, preferiscono la banalotta pulizia di un “numero primo” alla confusa e irresistibile vertigine di Arena. Peccato, davvero. Ma comunque Alessio è lì, sospeso tra Napoli e Barcellona, a vomitare passioni su un foglio di carta. Per fortuna.