Alida Airaghi, Frontiere del tempo

09-03-2007

Versi ai confini della realtà, di Filippo La Porta

La poesia non è un gergo esoterico o un linguaggio speciale. Non ha necessariamente a che fare con il sublime né deve rispettare il dogma dell’oscurità. Proprio nel Novecento, e attraverso un filone in polemica con la corrente dominante del secolo (post-simbolista) – Brecht, Auden, Machado, Saba, Kavafis, Vallejo, e fino all’ultimo Montale, a Caproni e Bertolucci – la poesia si è identificata con la conversazione quotidiana, con il diario psico-morale, con la satira, con l’autobiografia, con il teatro, con l’invettiva. E in ciò ha dimostrato di poter accogliere in sé, attraverso una lingua evocativa e luminosa, una vastissima area dell’esistenza. Questa raccolta di verdi di Alida Airaghi, Frontiere del tempo (Manni), esemplifica tra l’altro le immense potenzialità di un linguaggio apparentemente obsoleto come quello della poesia, che per qualcuno è invece destinato a essere sostituito dalla canzone e dal rap. La tastiera emotiva e concettuale dell’autrice riguarda gli innumerevoli aspetti dell’esperienza. Può essere la mesta riflessione sul disfarsi dell’esistenza: «Tutti i miei giorni sono degli addii: / al maglione logoro sui gomiti, / alle scarpe consumate, / all’estate che è finita, / al libro terminato e messo via. / E al pensiero inservibile, / all’amore inguaribile, / all’amico che mi ha detto una bugia»; o la filastrocca giocosa sul dolce inganno del futuro («Aspettando il passato / aspettando Godot, / aspettando il mercato / aspettando il metrò, / aspettando il futuro / aspettando Gesù / aspettando lo scuro / aspettando il menù / aspettando l’amore / aspettando l’aurora / aspettando un favore / illudendosi ancora»; o anche la meditazione metafisica: «Tempo prima del tempo , / essere che non c’eri, / vuoto dell’esistenza ieri prima di ieri»; o anche la saggezza ironica in forma di prescrizione: «Non tutto / non subito. / Saper aspettare / limitarsi / rimandare». E infine l’invocazione teologica: «Dal profondo ti chiamo, / Signore: esci dal fondo. Illumina l’abisso. / Squarcia l’eterno».
La Airaghi, nata a Verona nel 1953, ha già pubblicato altre raccolte di versi (con Einaudi oltre che con Manni) ma su di lei la critica, salvo qualche eccezione (Berardinelli), ha scritto pochissimo, dato che si tratta di un’autrice appartata, inclassificabile, poco efficiente nell’autopromozione e non riconducibile a poetiche e gruppi di avanguardia. Ma forse non importa. Sappiamo che i risvolti di copertina dei libri di poesia firmati da autorevoli critici appaiono sempre più come favori fatti in amicizia e non esprimono un vero giudizio qualitativo. Ciò che veramente conta è che quei libri sappiano incontrare, in modi imprevedibili e per vie traverse, i loro lettori.
E all’attenzione di questi lettori vorrei, infine, consegnare un fulminante distico della poetessa: «Sempre in ritardo sulla speranza, / abbiamo fatto abbastanza?»