Il transito di eventi dà un tocco di magia alla grigia esistenza, di Giuseppe Amoroso
Un «macabro bisogno di moto» imprigiona gli uomini nella «logica» degli sconfitti, costretti ad «andare venire tornare»,
ingoiati da pullman simili a «bare su gomma». Sono marionette guidate da un «valzer di lacrime». La vita nemica, crudele, nera offre ovunque questo spettacolo di perdizione la cui colonna sonora è il rumore sordo, stridente, metallico dell’intera città che «s’incurva», si «oscura» in un perpetuo, ossessivo andare intorno al punto vuoto dei giorni che si ripetono. Hanno promesse d’albe e affanni di tramonti, questi giorni, e tenebre in fondo alla sempre uguale linea di destino che sembra avere tante forme e invece ripresenta, inesorabile, un percorso già scritto.
Morire in gola[1]di Andrea Manzi è, in una versione, tecnicamente avanzata, di folgoranti scelte stilistiche, un mixer felice in cui la poesia lirica si fonde senza frizioni con quella narrativa; l’eco rivitalizzata della ballata rinnova dettato e struttura quando si fa più intensa la denuncia civile; e il tassello del deforme e del grottesco mostra, nel disegno coinvolgente del mosaico, un motivo di doloroso stravolgimento, una rifrazione di canto imprendibile e occhieggiante, un irreale contrappunto che scopre impensate avventure di visi in filigrana, mentre tutto vacilla e si confonde e si riaccende d’ogni sortilegio e fa magico il concreto giornaliero. Il repentino transito di eventi scompone e ricompone in tanti quadri la commedia scontata dell’esistere nella grigia, ferrosa solitudine. C’è molta favola in questa dura cronaca: sorgono visi da luoghi cancellati dalle nostre meccaniche pigrizie. Lì, in quella terra di dimenticanza, il poeta mette in scena i suoi stupori e quelli della città di Napoli che esce lentamente dalla notte; l’ineludibile ricerca di chiarimento e le curiosità minime di un io che si mette tra parentesi; i «metapensieri» che popolano i concetti di figure e paesaggi e la ragnatela criptata di letteratura, scienza, filosofia.
Il gran gioco delle immagini ad ampio raggio inventivo è impiegato pure per inchiodare (dato il largo spettro di significati) una precisa realtà topografica a una coscienza morale (pensiamo ai peccati che «entrano/dalla tana dei campanili»), a uno scatto di visionarietà. È una vertigine che fa variare gli orizzonti nei quali secchi frammenti della routine sono capaci di illuminare un atlante di romanzeschi episodi sottotraccia, di vicende sorprese in un ralenti perplesso, sbigottito, di paesaggi appena usciti da una storia e già pronti a rientrare in quella storia. Docile e chiaro, l’impasto linguistico può, interpretando parole e colorando la morte con la loro «vernice», rintracciare la nota corrente dell’attualità, tra «fiori graditi» e «tasse odiate», «laboratori per fantasmi» e il «boccaglio di memorie tristi». Salvifica è l’autoironia dell’io, «inattuale modellino proust» e «disperato stenografo», che riesce ad «avvistare misteri» nelle «cose che tocca» e a discutere lucidamente dei propri versi e del proprio «codice» di scrittura, «autoctono», in lotta impari con le sterminate leggi del creato, con l’inquieto moto del mare in cui l’infinito trova «istantanee varianti». E non c’è tempo «per andare a capo». Libro che ha – come scrive M. Cucchi nell’Introduzione – una marcia in più rispetto alla diffusa «sperimentazione a tutto campo», Morire in gola è una felice stazione della nostra lirica più alta: l’approdo di un poeta che conquista «spazi e mai cifre». Da un lato lo «show della vita nera», dall’altro la «vita che schioda gli abissi e gli adagia / sulla via delle aquile»: cornici sospese sul vuoto di un paesaggio che, incessante, muta aspetto, prende le latitudini dei sogni e dei miraggi, si contamina di visioni oltranzistiche, non è mai definito ma si muove secondo l’ottica della struttura a tutto campo dei testi. È a più strati, con piani che si intersecano borgesianamente, si sovrappongono, si allontanano creando uno scenario di illusioni, ma anche pungendo con la forza di flash puntati dritti sul nucleo degli interni e in grado di scovare animati dettagli (il «frigo vuoto», il «pane sulla tovaglia a fiori», il «giallo paglierino alle pareti», le «stuoie sul cassettone»). Ma è pur sempre l’incontro inatteso tra il peso delle cose e i risvolti d’enigma che le circondano a far sprizzare l’immagine di scene in subbuglio: i «passi dell’ubriaco ultimi rintocchi di suola / mormorano nel’universo-oblio»; le pietre che «prendono forma di denti / stringono l’aria in bocconi amari». E poi «proletari transitati dalla porta di internet / spediti in camera con l’intertesto da derrida». Manzi non ama la tregua, il suo mondo è una miscela di tensioni, sorprese, nozioni e memorie che non vogliono solo comunicare quanto richiamare libri, storie grandi e piccole, felici e tenebrose, episodi millimetrici dell’esistenza, innesti di parole che il lettore ha forse ascoltato altrove e che sente risuonare come da nuova fonte.
Squarci di ore domestiche, affetti familiari e quel tanto di irreale che «nel vento polveroso» appende le cose a «cavi invisibili» si incrociano in un’alternanza così naturale da far sembrare miracolo il quotidiano e comune l’incubo. A rendere continuo e senza scosse, quasi un lento transito di favola, questo universo così vero e amaro concorre un registro stilistico di alta qualità che scandisce la pressione letteraria dall’operetta morale al discorso critico, dal taglio dell’idillio («scruto filari di alberi…») all’accanito foglio di diario punteggiato di criptocitazioni, alla suasiva cantabilità di testi antichi («il cielo senza te è solo cielo / il pianto nostro s’è avvitato al vento / il cielo geme e arrovella pioggia»). Si aggiungano l’uso anomalo del verbo, un autentico tromp-l’oeil (il mulinello che munge il vento, un «fiocco d’onda / che spettegola improvvido / con la risacca ciarliera e di zizzania muore»), le similitudini più anomale che conducono inattesi raffronti (le metropoli sono come «colli di modigliani»; i poeti come «lemmi schiodati dalle croci sulla terra desolata di eliot»). E si aggiungono l’onomastica e la toponomastica con l’iniziale lettera minuscola come a voler sottrarre rilievo, interesse al luogo o alla persona per immetterli furtivamente nell’azzerante onda lunga del discorso continuo trasmesso da un «reporter simultaneo di insospettati stupori» con l’«occhio teso / sul dejà vu». La desublimazione riguarda inoltre il riascolto di tanti motivi del passato riutilizzati in un registro maliziosamente medio in cui un «angelo nemico […] parla come un messo comunale».
[1] A. Manzi, Morire in gola, Manni, Lecce, 2009.