Il poetico morire in gola, di Michele Sovente
L’umana esperienza, i materiali della cronaca, la realtà in divenire, e poi un convulso, straripante flusso di umori, emozioni, stati d’animo, sono diventati per la poesia contemporanea, e per quella sperimentale in particolare, la chiave di volta, il centro propulsore. In Italia, con il Gruppo 63 (Sanguineti, Porta, Pagliarani, Balestrini), lungo la traiettoria delle avanguardie storiche, la lingua poetica ha profondamente assorbito i fermenti, l’inquietudine del mondo in divenire, mescolando il registro alto e quello basso, i dati esistenziali e quelli socio-culturali, la dimensione narrativa e quella epica. L’epica quotidiana, infatti, ha finito per risolvere la sfera soggettiva in un brulichio di fenomeni, comportamenti, intenzioni, sulla falsariga di una critica radicale a un tipo di società che vede l’uomo «a una dimensione». Una siffatta poesia oggi non ha vita facile, eppure c’è chi ancora cerca di farla, ma senza farsi travolgere da un uso indiscriminato delle tecniche, bensì ubbidendo al proprio disagio umano e a una spiccata tensione civile ed etica. Andrea Manzi, giornalista, autore di saggi di argomento sociale e politico e di due testi teatrali, rientra a pieno titolo in questo tipo di produzione poetica. Morire in gola (Manni editore, pagg. 142, euro 12) è la sua nuova raccolta e si avvale di un’attenta, lucida introduzione di Maurizio Cucchi. L’impianto compositivo e la struttura del libro si presentano suddivisi in tre sezioni: «Castelvolturno, il ghetto. (Quadri)», «Occhi d’inverno», «Mari». Filo conduttore di questa sorta di opera aperta, dai vari aspetti rappresentativi e con movenze tra il quadro d’ambiente e la testimonianza a presa diretta, è un avvicendarsi di sipari e siparietti, un assieparsi di cose e di comparse così come si assiepano le parole, le frasi, le immagini, i lacerti di un pensiero febbrile. Una scrittura affannosa, disarticolata, che mostra il disordine e il caos, dove pure un punto di convergenza c’è: un insistente stropicciarsi di gesti e circostanze. E la stessa poesia ne fa intrinsecamente parte: «La poesia è - / è la cronaca d’uno scalpiccio / rude confronto del selciato con / suole ferite - la penna il taccuino / le parole per dire / di un rumore lieve nel rintocco d’aria / poesia souvenir della memoria(? ) / poesia / che(? )». Un materiale verbale, quello usato da Manzi, che scaturisce a densi fiotti dal magma del vivere, dallo stare in un ribollire perpetuo, per cui parlare e scrivere hanno a che fare con «il fiato rotto» e con il «morire in gola». Voci vicine e lontane, frasi smozzicate, battute di un copione sospeso nel vuoto dove «la storia semina musei / di corpi a cielo chiuso / ossari di speranze cieche», sono la linfa e la ragion d’essere di una poesia che non teme di affidarsi al rischio.