Andrea Manzi, Morire in gola

23-01-2010

Manzi sui tragitti della carne, di Nunzio Festa

Manzi è un poeta che coglie i tragitti della carne. La poesia di Andrea Manzi, autore che si pone fuori da cerchie, regole, schemi e schematizzazioni, e per fortuna vive di sue visioni e visitazioni, prendendo da grandi riferimenti per ridefinire una linea marcatamente alla ricerca dell'autonomia assoluta, la versificazione di Andrea Manzi, si diceva, incontra una sperimentazione tutta utile alla nostra routine o per lo meno a quella di diverse realtà. Non a caso, la sezione meglio riuscita della seconda raccolta “Morire in gola” - la più recente del giornalista - è la prima, ovvero quella che si riempie grazie e in virtù della sofferenze di una umanità a fior di pelle con la resistenza della pelle stessa. Insomma, Manzi riesce a raggiungere il livello più alto dell'espressione quando si fa vincere da elementi che sono apparizioni e consistenze: i tanti migranti che affollano tanti pullman come se andassero al macello. Castelvolturno, Roma, Milano. Non fa alcuna differenza.
Che l'immagine, dunque, il “quadro” ma anche il “sentimento” è sempre e soltanto lo stesso. Ed è in questi frangenti che Andrea Manzi, molto più di quando si lascia scostare dalla frammentazione (per lui eccessiva), permette a chi legge di trovarsi di fronte a poesia ardente. Cucchi, poeta celebre e celebrato, oltre che penna fatta da orecchie attivissime, in sede di introduzione dell'antologia “Morire in gola”, per esempio, deve aver chiaramente guardato e udito la “sperimentazione a tutto campo” dell'autore, a proposito di questo argomento spiega: “(...) Una realtà, quella di Manzi, in perenne movimento, piatta o increspata in superficie, ma che sempre contiene pressoché infinite presenze e innumerevoli possibilità di senso”. Il senso è tutto contenuto nel “racconto” della compassione. Come i maestri vorrebbero, quindi, non carità e beneficenza: compassione. Il Manzi poeta, che come accennato risente del contatto diretto e fisso con la cronaca, alimenta il suo miglior incedere con la peregrinazione dello scorrere dei corpi. Nell'esatta lettura dei termini, però. Cioè Manzi spinge a rincorrere o far sfuggire nuovamente quel continuare a fare tappe rituali e i condizioni solo sconvolgenti con la fitta del “morire in gola”, appunto. Poi l'intervallo. Che produce soste in atomi di sperimentale, microbi viventi nello scandire della prosa. Dove, ma a fine metà, arriva il mare. Andrea Manzi rinuncia, e fa decisamente bene nonostante possa controllare ancor meglio l'istinto al di là della spontaneità, alla punteggiatura.
E questo, fra le altre cose, fa da ausilio a certa espressione.
Mettendo al bando lo sforzo d'una musicalità forzata, in più, concede più attenzione a pezzi di contenuto. Verso la metà della poesia dedicata “a Marco, giovane poeta suicida”, questo per citare un tassello importante del libro, il poeta scrive: “il cielo invece piange / e allaga la costa e inchioda le lampare / nel tremore del porto /ma è ancora vita / questa che infuria e s'insabbia/ sulle rotte migratrici degli uccelli”. L'autore vuol provare candori e natura dagli animali.