Andrea Tarabbia, La buona morte

03-11-2014

E’ in libreria La buona morte. Viaggio nell’eutanasia in Italia (Manni, 2014, € 16), di Andrea Tarabbia.
«L’idea» ha scritto l’autore, «era quella di non fare il solito libro militante e documentatissimo intorno alle leggi, ai decreti e alle loro eccezioni, ma di guardare il tema da un punto di vista un po’ più laterale e personale.»
Col suo permesso, pubblichiamo qui l’inizio del primo capitolo.

Nel 2008, mentre in Italia imperversava il caso Englaro, Giulio Mozzi, dalle pagine del suo “bollettino” online Vibrisse, lanciò un’iniziativa di cui, ormai, non rimane quasi traccia in rete: pubblicò il suo testamento biologico – redatto senza l’ausilio di un notaio e a tutti gli effetti non valevole a livello legale – ed esortò chi, tra i lettori del suo blog, ne aveva voglia, a inviargli il proprio. Si trattava di una piccola iniziativa e, allo stesso tempo, di una presa di posizione pubblica piuttosto ferma in un momento in cui il dibattito sul fine vita stava fermentando e avrebbe presto raggiunto dei picchi di squallore quasi mai più eguagliati nel nostro Paese. All’epoca io ero membro della redazione della rivista Il primo amore, e nelle riunioni di redazione avevamo cominciato a discutere su cosa avremmo potuto fare, nel nostro piccolo, per prendere parte in modo deciso al dibattito in corso. Antonio Moresco aveva proposto, senza conoscere l’iniziativa di Mozzi, che ognuno di noi scrivesse il suo testamento e lo rendesse pubblico. Nelle nostre intenzioni, volevamo che i nostri contributi mobilitassero la comunità intellettuale italiana e facessero scrivere a numerose personalità della cultura il proprio testamento. Mentre Eluana vegetava e poi moriva, noi credevamo che l’unico modo per cercare di smuovere un po’ le coscienze a favore dell’eutanasia e delle pratiche di “buona morte” fosse mettere noi stessi e le nostre volontà sulla pubblica piazza. Così, ci accordammo con Mozzi perché l’iniziativa dei testamenti diventasse congiunta: Il primo amore e Vibrisse – all’epoca due testate di punta della comunicazione culturale in Italia – avrebbero cominciato a pubblicare e diffondere i testamenti biologici di chiunque avesse aderito. Scrivere il proprio testamento, in un contesto nazionale in cui molti parlavano a vuoto, accusando Beppino Englaro di infamie che non ha mai commesso e, soprattutto, dicendo mostruosità intorno al corpo di Eluana senza averlo mai né visto né immaginato, scrivere il proprio testamento, dicevo, ci sembrava un fatto. Aderì all’iniziativa qualche decina di persone: molte meno di quante ci aspettavamo. Soprattutto, - e questo ci sorprese e ci turbò –, nessuno degli scrittori che interpellammo volle aderire, per pigrizia e per superstizione, all’iniziativa. Molti rilasciavano interviste o scrivevano invettive pro-Eluana sui giornali, ma quando si trattò di mettere nero su bianco le proprie volontà, per quanto in modo soltanto simbolico, fecero finta di niente o addirittura risposero che non se la sentivano.
Nel 2009, il sesto numero cartaceo del Primo amore, intitolato dostoevskianamente Il miracolo, il mistero e l’autorità, affrontava, come scrive Moresco nell’editoriale, «il drammatico problema dell’uso autoritario e deresponsabilizzante che viene fatto in questi anni del desiderio di trascendenza dell’uomo, del desiderio – anch’esso profondamente umano e prefigurante – di miracolo, di mistero e di autorità. Problemi attuali e gravi sui quali dovrebbero trovarsi uniti nello stesso rifiuto credenti e non credenti». Si parlava, insomma, di potere temporale e spirituale, nel contesto di un anno in cui, appellandosi ai concetti di “fede” e di “vita”, le gerarchie ecclesiastiche vaticane avevano assunto posizioni molto rigide e insopportabili intorno all’eutanasia e al rapporto tra un individuo e il proprio corpo.
Moresco scrisse un lungo e appassionato editoriale a cui rimando (si intitola La resurrezione) che provava a fare il punto sul dibattito in corso intorno al «problema della vita e della morte»: la CEI aveva da poco dichiarato (a proposito del testamento biologico) che se le volontà del singolo non coincidono con quelle della Chiesa le prime dovrebbero essere considerate senza valore. In particolare, se in un testamento biologico l’individuo esprime volontà di non subire accanimento terapeutico, ebbene, questa non deve venire rispettata. Ossia: tu devi vivere a tutti i costi, anche contro la tua volontà e anche se questo imperativo viene da un’agenzia di pensiero («agenzia di pensiero» è un’espressione che ho sentito pronunciare a Mario Riccio, l’anestesista che nel 2006 ebbe pietà di Piergiorgio Welby, e che non ho più dimenticato), la Chiesa, che tu non riconosci. «Se io non sono credente,» scriveva Antonio, «e ho un’idea materialistica della vita non può che apparirmi inaccettabile il fatto che un’istituzione religiosa (…) pretenda di dettare legge anche per me e per tutti quelli che la pensano come me. E che pretenda (…) di sottrarmi la libertà e la vicinanza alla mia stessa vita addirittura in questo momento cruciale. Se io sono credente, penso che la vita mi viene da Dio, non dalla Chiesa, anche se questa sostiene di parlare a suo nome».
Il paradosso di questa posizione – ne parleremo meglio più avanti, chiamando in causa anche il filosofo cattolico Giovanni Reale – è che in nome della vita a tutti i costi, per così dire, la Chiesa va contronatura, impedendo a una vita di spegnersi (come avverrebbe in un mondo privo di tecnica) e affida appunto alle macchine, alla tecnologia il compito di tenere in vita qualcuno che, magari, non crede o è semplicemente esausto e desidera la morte.
Chiesa, morte, tecnica, libertà, dolore, medicina, autodeterminazione (del malato), identità, diritto di proprietà del proprio corpo, infine giustificazione: sono questi i poli attorno cui ruota il discorso. Moresco arrivava a dire che la concezione ideologica presentata dal Vaticano in materia di fine vita è puramente normativa: è un elenco di imperativi in nome del fatto che il nostro corpo non ci apparterrebbe ma sarebbe “in prestito” e su di esso noi non avremmo diritti. Ma i corpi, si dice, muoiono affinché un giorno possano risorgere: una Chiesa che vieta di morire è una Chiesa che teme la resurrezione. Ancora: «Non è accettabile che la vita personale sia proprietà più della Chiesa che di chi fa un tutt’uno con essa e addirittura – per chi ci crede – di Dio. La paura della morte, la delega ad altri per non pensare alla nostra mortalità sono la causa di questa truce sottrazione di umanità».