Una persona che sbaglia. Intervista all’autore, di Luca Fiorentini
Elisa Dentiera, la protagonista del romanzo, sembra costruita su un cliché tutto sommato non infrequente, ovvero quello della trentenne frustrata: un personaggio per certi versi propositivo, ma incapace di tradurre in azioni le proprie esigenze anche più semplici. Hai voluto inserirti in una sorta di filone, scegliendo una tale fisionomia per la tua protagonista? Quale valore ti senti di dare a questa operazione?
Io volevo parlare di una persona che sbaglia. A me in generale piacciono le storie di persone che sbagliano. Così posso vedere come gli stessi sbagli vengono risolti nei libri, o nei film. Direi che la letteratura, e anche il cinema, spesso si occupano di sbagli. Da Balzac al melò nel cinema americano, o in Fassbinder. Da certi talenti tipo Hornby, alla de Cespedes, a Testori, o a Cristina Stead, o Buzzati, direi che cambia solo il livello di ironia che chi scrive riesce a mettere in quello che scrive. Spesso la letteratura parla di errori. E d’altra parte la vita non è forse la capacità che ciascuno di noi ha di reagire agli inevitabili errori?
Proprio Dino Buzzati, in Un amore, scrive un dialogo molto efficace tra il protagonista del romanzo, l’architetto Antonio Dorigo, e un’amica di Adelaide Anfossi, la ballerina-prostituta di cui egli è innamorato. Quest’ultima lo rifiuta, a parere dell’amica, perché Dorigo le ha sì dichiarato il suo amore, ma senza mostrare mai la volontà di riscattarla: senza smettere, in altre parole, di farla sentire una prostituta. Elisa Dentera sembra fare qualcosa di simile su se stessa: cerca continuamente di riappropriarsi della propria esistenza, per esempio professionale, ma non riesce a fare a meno di presentarsi a tutti come una fallita. Che sia qui la chiave della sua frustrazione: in un’incapacità di immaginarsi in termini diversi?
Sì, mi sembra importante quello che dici. Elisa non ha una visione libera delle cose. È piuttosto una vittima di se stessa, ha una personalità nevrotica e come tale non è capace di leggere la realtà con leggerezza. È pesante. Cosa vuol dire questo? Che conseguenze ha? Elisa, come molti dalla personalità distorta, spesso pensa male degli altri. E questo stesso pensare male a volte lo esercita su di sé. Vede il mondo come un posto orrendo, molto peggiore di quello che è. Per questo cerca di acchiappare da chi le sta vicino quello che può, cerca di rubare agli altri, e mai di dare. Non è mai aperta, mai generosa. Né nei pensieri, né in quello che fa. Al massimo si commuove, per gli altri. Vive col motore al minimo, come dire. Anche questo fatto che vorrebbe vivere senza fare niente, essere mantenuta, prendere e basta. Senza dare, né in termini di fatica, né di passioni, né di energie. È come se dicesse, «Questi soldi ci sono già, ce li hanno gli uomini con cui ho vissuto, sono lì: perché» non prenderli?». Questo cercare la sopravvivenza, non mettersi mai in gioco. Io non la critico per il fatto che lei voglia essere mantenuta. Credo che ci siano scelte molto più amorali. In questo caso la difendo. Non mi piacciono la sua voglia di sopravvivere, la sua mancanza di energie. Non mi piace la sua furbizia. La mancanza di consapevolezza di cui lei è artefice e vittima. Ma Elisa è anche un personaggio letterario femminile, è stata elaborata da me che sono una donna, e come tale è figlia di altri personaggi femminili della narrativa. Figlia di quello che ho letto io. A me per esempio, piace molto un film degli anni Settanta, In cerca di Mr. Goodbar che ha Diane Keaton per protagonista. La storia di una donna molto sola, che tutto il giorno lavora, e la notte se ne va in giro per bar a caccia di uomini. Un po’ una Elisa americana! Scherzo. Meno male che il finale è diverso. Il personaggio di Judith Rossner alla fine viene assassinato.
La tua scrittura fa un ampio uso dell’indiretto libero, con uno sconfinamento continuo tra parti diegetiche e dialogiche – tanto che il narratore finisce veramente per sovrapporsi e confondersi, di volta in volta, con i vari personaggi. Quanto costa, in termini di fatica, una scrittura così? La senti come quella a te più congeniale, o ti risulta un’operazione tecnicamente complessa?
In termini di fatica niente. Non so se sono nevrotica io, ma mi pare che tutti gli spazi in cui non diciamo niente siano riempiti dalle parole che non diciamo, ma che pensiamo. Per esempio, se durante un colloquio io sto zitta, non è detto che io non stia parlando fra me e me. Non solo. Se qualcuno presta attenzione a me si renderà conto – da come mi muovo, da come gesticolo, da come mi metto – di come mi sento. Non sempre, certo. Questo sulle strutture attraverso cui comunichiamo, sui modi. Poi anche lì. La letteratura ha delle strutture sue autonome che c’entrano con la vita ma che non sono la vita. Per tutti gli anni Ottanta mi veniva da pensare, sulla scia del postmoderno, che tutto fosse cambiato nei romanzi, che ci fosse stata una vera e propria rivoluzione. Rispetto ai classici per esempio. Pensavo che la figura del narratore onnisciente fosse qualcosa di superato. Pensiamo ai vari Purdy, e Berth, o anche Calvino. Oggi credo che una narratrice – un narratore – debba scrivere anche provando modalità che paiono superate, o azzardate o vecchie, o tradizionali o, al contrario, troppo sperimentali. Continuo ancora a pensare che dopo il postmoderno niente sia tornato più come prima, ma credo che si possa giocare con le forme letterarie, usando tutto quello che i romanzi del passato ci mettono a disposizione. In questo senso a me piacciono molto i narratori giapponesi, Murakami, Taguchi, Yoshimoto, capaci di tenere assieme passato e presente.
Ci sono molti dialoghi, nell’Arte di comandare gli uomini, che non portano a nulla: nel senso che la gran parte delle battute sono solo pensate dai personaggi, e non pronunciate; con il risultato, naturalmente, di una diffusa incomprensibilità tra gli interlocutori. L’atmosfera che se ne respira è in un certo senso avvilente. Come immagini, al contrario, una comunicazione efficace? Su quali presupposti deve basarsi?
Di solito è efficace la persona che pensa bene prima di parlare. Anzi, che pensa bene, e che non pensa troppo. E neanche troppo poco, però. Pensiamo a uno – una – che parlando non prende mai fiato, o che ci vuole mostrare, parlando, tutto quello che sa, o che in un’ora ci vuole raccontare tutto di sé. Dopo un po’ ci annoia. Una persona così conduce un tipo di comunicazione che va oltre l’essenziale. Così è per un’ora fatta bene. Credo che un bravo artista – chi lavora con le strutture della comunicazione in generale – sia quello che mette in quello che narra qualcosa di sé, ma che sia anche capace di non buttare su chi legge – chi guarda, chi ascolta – tutto ciò che lo riguarda. Credo che un bravo artista sia un bravo selezionatore. Pensiamo a Dostoevskij. C’è sì dentro le sue opere molto della sua vita, ma anche tutto il Dickens che lui amava. C’era appunto un filtro fra lui, Fiodor, e la narrazione. Credo che siano necessari questi filtri. Credo che le forme artistiche di espressione siano questi filtri. I romanzi degli altri, i film, le opere, il grande capitale di tutte le opere critiche e narrative che costituiscono la cultura che ci ha preceduto. Oh, beninteso! Se dico cultura mi riferisco sia a quella cosiddetta alta che a quella cosiddetta bassa. Così come se dico bravo artista intendo l’autore – o l’autrice – consapevole del fatto che si lavora sempre con altri, quando si fa cultura, e che non si fissa sul fatto di realizzare la grande opera tutte le volte che fa un segno sul computer. Il cinema per esempio ci ha insegnato quanto sia importante ai fini della realizzazione dell’opera il lavoro di gruppo. In questo senso credo che diventare dei bravi artisti sia un po’ come imparare a vivere. Ma non lo so. Forse mi sbaglio.
C’è un personaggio positivo, a tuo parere, in questo romanzo? Cosa significa la sua presenza o assenza?
Elisa non mi sembra un personaggio negativo. E anche Valerio, il ladro. Elisa non mi sembra negativa perché alla fine, quando è in condizione di capire, capisce. E così Valerio. È uno senza pregiudizi. Non è cattivo con gli altri. Sono accomunati dal fatto di non avere pregiudizi. Perché dico che Elisa non è del tutto negativo, come personaggio? Perché alla fine quando incontra Ettore, quella specie di poeta mancato, fa due conti su di sé e si rende conto che sta sbagliando tutto, anche lei, come il poeta. Finalmente si apre. Nella vita non è sempre così. Magari! Perché dico questo? Elisa è una donna che ha vissuto, è anche colta, ha studiato, ha letto dei libri, ha visto dei film, ma questa roba non le ha insegnato niente. Ha subito passivamente tutto. Quanto Ettore si mette a parlare – e lei è in un momento particolarmente delicato della sua vita, visto che sta per suicidarsi – si rende conto di quanto gli altri possano essere vittime di qualcosa. In questo caso, Ettore è vittima del fatto di voler essere un poeta. Le passa per la testa anche del danno che possano fare i cattivi poeti. Dice, «Una donna scema è sempre il frutto di un cattivo poeta e di altre donne sceme». Come dire che noi, tutti noi, siamo anche frutto di scelte culturali. Alcune le facciamo altre le subiamo. Ecco questo Ettore le dà la possibilità di rendersi conto di come vadano le cose. La illumina su di lei, senza volerlo, la illumina sul suo problema. Ma lei è anche brava a cogliere la stupidità, diciamo così, di questo Ettore! E anche la sua. E di aprirsi…
Come immagini i tuoi lettori? Voglio dire: quando scrivi ti figuri un pubblico particolare? E cosa ti auguri, per questo pubblico?
Ti devo dire quello che mi piacerebbe o quello che mi dicono gli editori? Mi piacerebbe avere una lettrice, un lettore di quelli che dicono, «Ah, sì! Questa l’ho pensata anche io.» Oppure, «Ah, queste cose avrei volute raccontarle io! Questo personaggio!» Perché questo meccanismo crea una specie di comunità. Nella realtà, i lettori che ho, non dico proprio che li conosco tutti, ma quasi. Non supero le 2000 copie a volume! E riguardo a quello che spero per chi legge, spero per lui, o per lei, che non riesca a staccare gli occhi dalle pagine del libro, come a volte capita a me.