Un'umanità intossicante, di Gianfranco Franchi
Opera prima di Angelo Ricci, avvocato e scrittore novarese, classe 1964, Notte di nebbia in pianura è un quaderno di storie di un’umanità minima, dolente, vinta e provinciale. Un’umanità che incrociamo, distratti, in qualche notiziario televisivo: magari quando piomba, incosciente, nella cronaca nera. E stentiamo a credere, ogni volta, che le condizioni di vita e la qualità della vita di certi cittadini siano così esecrabili, inficiate da una piccola borghesia che aderisce e corrisponde in toto a una povertà culturale abnorme. Intossicante.
Narrato cinematograficamente, montato alla Magnolia di Paul Thomas Anderson, come sguardo esterno su vite ed esistenze che involontariamente e drammaticamente s’intrecciano, raccontando del nostro tempo e della normalità della morte, e dei rovesci della sorte, “Notte di nebbia in pianura” è un esordio interessante, equilibrato e promettente. Potrebbe derivarne, negli anni a venire, un buon romanzo della provincia italiana, perché l’autore sembra aver interiorizzato e metabolizzato tipi, atteggiamenti, codici linguistici di ambienti e classi sociali molto differenti; aspetto Ricci al varco d’un libro più complesso e ambizioso, nella consapevolezza che difficilmente perderà mordente e incisività. Dovrà lavorare, per bene, sulla struttura.
Per adesso, annoto il suo stile, freddo ma non algido, artificioso ma non artefatto, eclettico ma non senz’anima, tra quelli degni d’essere rivisitati e rivalutati in futuro. Quando questo lavoro sarà, con ogni probabilità, giudicato un esercizio prodromico.
Questo suo primo libro è nato dentro la nebbia. Una nebbia che porta sempre tutto via con sé; e intanto svela, teatrale, i personaggi di Ricci. I pensieri te li trascini dentro, si legge nelle prime battute. Per avere qualcosa che ti distragga, per avere qualcosa da dire. Intanto dei desideri inesistenti vengono creati, confezionati e battuti all’asta, in una triste tv commerciale locale. Il prezzo non cambia. La nebbia nasconde e avvolge tutto, e lo traduce altrove.
È la storia di un ragazzo che sta perdendo la madre, e assiste al termine del suo viaggio e al silenzio della fine d’un’esistenza anonima e semplice. Di un alcolista coprolalico, lo Sticazzi, che di notte vuole sciogliere il ghiaccio d’una fontana, liberandosi delle Ceres. E intanto s’eccita pensando alla violenza, e violenza a sé chiama, e sprigiona. È la storia dell’addestramento d’un giovane carabiniere, e della detenuta Sandri Anna, una che sembrava sempre addormentata, da piccola, e che senza accorgersene s’era ritrovata in un guaio grosso. Assieme a un immigrato musulmano disordinato e fuorilegge, e a crescere il suo bambino. È la storia delle avventure d’una emigrata dell’Europa dell’Est, e della viziata e viziosa Italia che ha incontrato; del suo desiderio di imparare a dominare gli articoli e le doppie della nostra lingua, per non sembrare straniera, per dimenticare ciò che è stata. Per essere nuova.
È la storia di tutte queste vite che una notte s’incontrano, a volte lateralmente, a volte frontalmente, e infine si dissolvono nello sguardo di Svetlana, la ragazza che non era lei, per dirla con le parole di Pincio.
Qualche anno fa uscì un film tratto da un soggetto di Pier Vittorio Tondelli, si chiamava Sabato italiano. Era il 1992. Il degrado e la corruzione della provincia si concludevano in un favoloso – si fa per dire – incidente stradale che portava via con sé persone estranee tra loro, intrecciate dal narratore e dalla narrazione proprio come nel quaderno di Ricci. Qui non siamo in Emilia Romagna, ma probabilmente in Lombardia; sono trascorsi quasi vent’anni.
Non sembra sia cambiato nulla. La percezione della fine d’un sogno è limpida, netta e condivisa. Stesso discorso vale per la fine della storia. Crash.