Annalena Aranguren, Il tempo che ho scritto

20-04-2011

Le fotografie della memoria, di Gabriele Ametrano

Alcuni dicono che la poesia è morta: sepolta chissà dove nelle biblioteche e nelle librerie di famiglia. Bisognerebbe dire a “lor signori” che si sbagliano perchè il verso vive, seppur silenzioso e discreto. Non è più lirica declamata a gran voce nelle piazze ma poesia pubblicata, coraggiosa ancor più che nei secoli scorsi perchè oggi nessuno crede più nella “parola che squadri da ogni lato l’animo”. E quindi pubblicarla è gesto rivoluzionario, contro ogni tendenza editoriale. E che Annalena Aranguren abbia scelto proprio il verso per raccontare le fotografie della sua memoria non stupisce: le immagini vogliono poche parole per essere descritte, ma esatte e precise, come solo un poeta sa scegliere.

“Il tempo che ho scritto”, pubblicato da Manni Editore, non è l’esordio di questa donna fiorentina che lavora tra gli spartiti e l’armonia del Maggio Musicale Fiorentino. Già nel 1986 diede prova di grande sensibilità con “Senza pentagramma”, seguito poi dalla silloge “Nei passi l’attesa”, per cimentarsi infine nella difficile composizione di trenta haiku (composizione poetica di origine orientale che segue precisi canoni metrici e filosofici) raccolti in “Un’altra luce”. Oggi propone ai lettori 66 gioielli lirici in cui il tempo, la malinconia del passato e i ricordi segnano lo scandire di un percorso che (purtroppo) non potrà essere calcato nuovamente se non con i propri pensieri. “A che serve passare dei giorni se non si ricordano?”. Con questa riflessione di Cesare Pavese si aprono le pagine della silloge composta da “Album di foto”, la prima sezione, e poi altri versi raccolti in “I giorni vicini”. Essenziale, mai persa nel vocabolario austero da accademici, la parola di Annalena Aranguren si presta alla comprensione. Un mondo personale, fatto di ricordi e foto di famiglia, che entra nello spazio del lettore in maniera sincera; senza pressione la voce dell’autrice lega il proprio universo all’anima di chi ascolta il suo canto. Una memoria che diviene realtà e malinconia, attesa di una comprensione mai giunta o certezza. “Spuntano ovunque / finestre illuminate: / è l’ora del ritorno”. Con questi versi si chiude “Il tempo che ho scritto”, tendendo la mano alla luminosa necessità della memoria. Unica bussola per non smarrire la strada del presente.
Un applauso a chi ancora crede nel verso, nella poesia, nelle parole scelte dai poeti. E a “lor signori”, a coloro che dicono di aver visto la lapide della poesia, una compassionevole pacca sulle spalle: un buon oculista potrà far ritrovar loro la realtà.