I giochi scomparsi per strada (anche nel lessico), di Alberto Sobrero
La vera epidemia del nostro tempo è la perdita di memoria. Oggi abbiamo la sensazione che lo «spirito del tempo» dominante tenda a cancellare il passato, e se accadesse questo sarebbe l’uomo stesso a morire. Chi conserva, chi tutela, chi diffonde la memoria fa qualcosa di paragonabile allo sforzo degli scienziati che, studiando il Dna, immaginano di farci vivere a lungo, magari in ottime condizioni.
Non sono parole mie, né di un nostalgico conservatore: sono di Walter Veltroni, che qualche giorno fa lanciando l’allarme di un «pensiero unico», omologante e senza storia, esaltava l’importanza vitale della memoria: memoria non dei grandi fatti storici ma dei ricordi, delle storie, dei drammi, dei sogni delle persone. Aggiungiamo, dei fatti della vita di tutti i giorni, delle tradizioni locali, della cultura popolare, del «saper fare» tramandato di generazione in generazione, dei riti e dei costumi che fanno di un gruppo di persone che vivono nello stesso territorio una società.
È un appello bipartisan (e infatti il ministro Biondi si è affrettato a sottoscriverlo, e dopo di lui altri del centro-destra). Eppure lo «spirito del tempo» sembra proprio andare in direzione opposta, verso la dimenticanza e l’omologazione.
Prendiamo i giochi dei bambini. I nostri figli e nipoti fanno scorpacciate di Yu-goh (ieri di Gormiti, l’altro ieri di Pokémon), si ubriacano di orrendi e rozzi cartoni giapponesi – o giapponesizzanti –, sfiniscono le loro menti in videogiochi sedentari e – quando va bene – non educativi, riducendo al minimo i giochi in movimento, che prima si facevano in cortile e sulla strada. Non sanno più nulla di trottole e di biglie, di cavalluccio e quattro cantoni. È una perdita gigantesca, e doppia: sul fronte della cultura e sul fronte dell’educazione. Sicuramente vale la pena ripescarne la memoria. Eppure, fra i tanti settori della vita tradizionale, proprio questo è uno dei meno indagati, a partire dai nomi e dalle regole dei giochi. Ed è dunque destinato a morte imminente, imminentissima.
Sappiamo molto, ormai, sui nomi dialettali che si riferiscono alle tecniche di pesca nei fiumi e nei laghi, agli strumenti di lavoro del calzolaio o dell’impagliatore di sedie, ai processi che portano (portavano?) alla produzione del burro o del vino in molti paesi e in molti valli d’Italia; ma non siamo altrettanto informati sui tipi di altalena, sulle regole del nascondino o sulle combinazioni vincenti del gioco degli astràgali.
Bene, benissimo ha dunque fatto Annarita Miglietta a raccogliere con criteri scientifici le testimonianze di un buon numero dei giochi fanciulleschi più diffusi, e a presentarcele in modo chiaro e accattivante nel bel volume Così giocavano. Giochi fanciulleschi in Salento e oltre, fresco di stampa per i tipi dell’editore Piero Manni. Le testimonianze sono ottenute interrogando fonti di due fasce di età diverse in una ventina di località del Salento, e confrontando i dati raccolti con le informazioni fornite dalle fonti bibliografiche più attendibili del secolo scorso non solo in Salento, ma anche nel Mezzogiorno e nel resto d’Italia.
Ne risulta un quadro storico e sociolinguistico di ampio respiro, ricco e articolato, per ognuno dei giochi considerati, e una serie di descrizioni geolinguistiche, visualizzate con carte originali – ma ci sarebbero piaciute più grandi, e a colori –, che consentono di vedere con un colpo d’occhio quali sono e come sono distribuite nello spazio le diverse denominazioni di ogni gioco, in Salento, e di seguire i ragionamenti dell’autrice sulle diverse fasi di espansione areale di ogni denominazione.
Prendiamo il gioco della «lippa», che consisteva nel colpire un tronchetto di legno di 10-12 centimetri (la lippa, appunto), appuntito alle due estremità, con un bastone di circa 50 centimetri, per mandarlo il più lontano possibile: una specie di baseball, insomma. Molti lettori salentini lo conoscono sicuramente con il nome di «mazza e pizzarieddu» (che sono le denominazioni, rispettivamente, del bastone con cui si batte e della lippa): è questa infatti, con qualche variazione fonetica, la denominazione più diffusa in Salento, e in genere nel Mezzogiorno.
Ma Annarita Maglietta, oltre a puntualizzare il sistema di varianti del gioco stesso – numerose, in diverse località –, trova, ordina e commenta una ventina di denominazioni diverse, per lo più limitate a poche località, o addirittura a una sola: la lippa si chiamava «màzzica» o «bàzzica» a S. Pietro Vernotico, S. Pietro in Lama e Lequile, «pizzarieddu» a Collepasso, «nuzza» a Campi, «càstilo» a Matino, «màzza n zìrculu» a Bagnolo, Vignacastrisi e Specchia, «zippu» a Mesagne, «tìcchiti» a S. Vito dei Normanni, «mazzenu» a Sava ecc. Alcuni di questi tipi lessicali sono diffusi in aree più o meno estese, altri sono presenti a macchia di leopardo, altri infine ricorrono solo in una o due località. Come dire che alcuni sottostanno alle regole di diffusione delle parole dialettali, altri sono il frutto di invenzioni anche occasionali (ma sempre brillanti), diffuse ora in un paese ora in pochi gruppi di bambini.
Non solo: confrontando i dati odierni con le fonti più attendibili del secolo scorso Annarita Miglietta scopre che negli anni Trenta e Quaranta del Novecento c’era in Salento un’altra ventina di tipi lessicali, che sono ormai spariti, o sono sepolti in angoli remoti della memoria di pochi anziani: da «pizzipìu» (Melissano) a «spezziedde» (Taranto), da «zampugnulu» (Corsano) a «zingara» (Ruffano), da «zuppalicchiu» (Corsano) a «fustisceddu» (Neviano). E così via.
In questo, come in tanti altri casi, una scoppiettante ricchezza lessicale, un gioco senza fine di invenzioni e di creatività infantile sono stati soffocati. L’orizzonte del gioco infantile, infatti, coincide oggi con quello del mercato, e il gioco sembra aver perso tutt’e due le sue facce: quella della socialità (i giochi elettronici sono giochi solitari) e quello della creatività, che riaffiora ormai solo in contesti rari, di adattamento o di contrasto rispetto alle imposizioni del mercato.
Lo stesso giocare all’aperto (nei cortili, per strada) è stato soffocato dall’iperprotezionismo della civiltà moderna. Come dice Tullio De Mauro – nella bella Prefazione che impreziosisce il libro – «i giochi strumentali, su cui soprattutto si sofferma Annarita Miglietta, susciterebbero l’orrore di molte madri per la loro pericolosità» ma, soprattutto, il progressivo inabissarsi dei giochi infantili è determinato dalla struttura e dalle dinamiche delle aree urbane italiane, «che hanno privato le ultime due tre generazioni della possibilità e degli insegnamenti della grande scuola informale che fu giocare per strada e, per i più dabbene, nei parchi: le strade ridotte a parcheggi impenetrabili e, nella parte percorribile, a pista di pazzi motociclettari, le misere aree pedonali ridotte a spazio per lo shopping di lusso».
Così giocavano non è solo un bel libro di lingua e di memorie: è anche un memento, forse un monito, per un domani a misura di bambino.