Antonietta Langiu, Lettera alla madre

01-12-2005

Solo il ricordo, di Marcella Pala


“Nel teatro che è il mondo, ognuno, anche il più insignificante, ha la sua parte da recitare. Poi esce di scena. Rimane qualcosa? Forse”. Scrive così Antonietta Langiu nel suo ultimo racconto autobiografico, Lettera alla madre. Intrecciando i fili della memoria, la scrittrice rievoca i momenti e le tappe fondamentali della sua esistenza, vissuta attraverso una fitta rete di perdite e partenze. In primo luogo la morte della madre, alla quale, sotto forma di lettera, si rivolge. Rapporto d’amore, senza dubbio, “quasi morboso” ma anche intessuto di dolore e di rancori per le frequenti assenze e le scarse –talvolta inesistenti– manifestazioni d’affetto.
L’incontro e il successivo allontanamento con due persone non a caso accomunate dalla stessa esperienza dolorosa, la perdita della madre appunto, che gliele fa sentire vicine e comprenderle fino in fondo: uno è Bastiu, figlio del custode della villa proprietà della famiglia dell’amica Sabrina in cui è stata ospite, con il quale ha un rapporto fatto di silenzi, di piccole complicità e gesti ingenui che si concretizzano veramente solo il giorno della partenza di lui; l’altra è Matelda, compagna del liceo riservata e scontrosa, per certi versi simile a lei, e della quale apprezzava la straordinaria capacità di raccontare storie, proprio come sua nonna.
Ricco di pathos il ricordo della maestra Valina, l’unica forse che ha veramente creduto in lei infondendole fiducia e sicurezza; la narratrice amava così tanto questa donna affetta da poliomielite che alla sua morte si sentì precipitare nella solitudine.
Unica certezza della sua esistenza pare la famiglia, ma solo fino alla confessione “non richiesta, non voluta” del tradimento del marito che la fa “sprofondare in una voragine nera da cui credeva che non sarebbe mai più uscita”. Unico sollievo la scrittura, come in una sorta di terapia, grazie alla quale, come da ragazzina, è riuscita a superare molte difficoltà.
Rievocazione sofferta e, a tratti, drammatica cui fanno da sfondo, nel periodo dell’infanzia, la guerra e la propaganda fascista di cui ricorda il clima di terrore e il caos generato nell’isola, per descrivere poi il dopoguerra con toni più tenui e pacati, il riadattamento alla vita di sempre che non poteva essere più come prima perché “altri popoli, altri paesi, altri luoghi erano entrati di prepotenza nella geografia del nostro vissuto”.
Nostalgica poi la memoria dei luoghi dell’infanzia, l’amata Berchidda rievocata attraverso i sensi: i volti degli abitanti, l’odore del pane, il profumo di stufati sulle cucine a carbone e infine il silenzio della notte “su cui ognuno riusciva a percepire la vicinanza degli altri, sentendosene protetto”.
Così Antonietta Langiu ha rivissuto il cammino accorato e tormentato del suo passato, ma alla fine del suo viaggio sembra intravedere un raggio di speranza e di pacata serenità quando afferma “nulla di ciò che è stato, di ciò che ho vissuto potrà mai scomparire; il dolore diventerà solo più leggero e sopportabile, ma niente potrà essere cancellato […] Non i ricordi…”.
Ecco che allora nel teatro che è il mondo ognuno ha la sua parte da recitare, poi esce di scena. Rimane qualcosa? Senza dubbio i ricordi che arricchiscono la nostra vita.