Antonio Debenedetti, L'ultimo dandy

04-05-2009

Il dandy irritante del '900, di Giorgio De Rienzo

 
Alla metà degli anni Trenta girava a piedi per tutta Italia il signor M. Aveva l’«eccentricità di un poeta pur non avendo mai scritto poesie», aveva cancellato ogni traccia delle proprie origini, perché «gli sarebbe piaciuto essere o quantomeno sentirsi figlio della luna o del caso». Il signor M. è L’ultimo dandy che dà il titolo al bel racconto brioso (e pensoso insieme) di Antonio Debenedetti: un uomo che ha un tiepido disprezzo di tutto tranne che per la sua «enigmatica, un po’ scostante inaccessibilità» di creatura fatta di «lontananza». È questo il motivo più forte dell’invenzione di Debenedetti: l’aver creato un dandy novecentesco che riesce a irritare tutti, senza neppure volerlo, che può essere accusato (senza ragione) dai fascisti di cospirazione, mentre è guardato con sospetto dagli oppositori «liberali». Secondo il signor M., «i dandy si sentono diversi tanto dai cosiddetti diversi, quanto dai persecutori della diversità». Per lui il «dandismo non è aristocratico. È una conquista ascetica, un’acquisizione raggiunta per negazione, non un privilegio dinastico. Spoglia, non veste. Si cancella e non lascia eredi». Eppure non è negazione totale di vita.
Il signor M. ha un’esistenza sentimentale fatta di sogni. Ha un’amica (Flossie) con cui raggiungere «l’allegria» nello stare insieme abbandonandosi a colloqui in cui «la fosforescenza delle parole» rende tutto piacevole. Non importa che la donna magari non sia mai esistita e sia una pura invenzione. Per il «dandy» novecentesco «l’inconsistenza» è la «prima delle virtù», anzi il «traguardo finale» della vita. «Egli si sforza dunque di arrivare alla morte gettando continuamente zavorra dalla navicella della vita e perdere più che sia possibile di peso, di attendibilità, di concretezza».