Padri addio, gli scrittori cercano fratelli, di Filippo La Porta
Nel denso libro-intervista a cura di Paolo Di Paolo Un piccolo grande Novecento (Manni, pagine 174, Euro 14), Antonio Debenedetti si sofferma sugli incontri con i molti grandi scrittori del secolo scorso che frequentavano la sua casa e che esercitarono un qualche magistero –perlopiù involontario– nei suoi confronti. Tra affettuoso ricordo personale e acuminate notazioni sul carattere, ne rivela in poche righe la poetica o lo stile intellettuale. Cito soltanto i ritratti di Bassani (singolare incarnazione di rabbi, “dolorosamente sprezzante” e capace di una “implacabile ironia”), di Palazzeschi (con il suo “sorriso teatrale, un po’ viziato”, da “attore provinciale”) e poi di uno studioso come Argan (la cui freddezza a lungo cercata “ha fatto vivere ai suoi lettori la modernità come una straordinaria avventura dell’intelligenza”). Un libro che si potrebbe usare nella scuola come testo propedeutico allo studio della letteratura italiana novecentesca, proprio perché ci permette di stabilire un rapporto più intimo con gli scrittori. Eppure Debenedetti osserva, malinconicamente che una volta scomparsi Moravia e Fellini finisce “l’età dei maestri”: Sotto un cielo vuoto, abbandonato dagli dei e da ogni traccia visibile del “vero talento”, ci ritroviamo disperatamente soli, orfani e incapaci di diventare a nostra volta padri. È vero, non si può negare il senso di desolazione culturale delle generazioni attuali. Non vorrei però indulgere a una debilitante Retorica della Fine. È anche vero infatti che non disponiamo della distanza necessaria per capire il valore autentico dei nostri contemporanei. Forse la questione dei padri va riformulata. E allora vorrei tentare di correggere il discorso di Debenedetti con due considerazioni.
La prima è che l’esistenza di un maestro non dipende tanto da lui, da ciò che fa o da come si propone, quanto dagli altri, dal fatto cioè che ci sia qualcuno disposto a riconoscerlo in quanto tale. Per avere un maestro bisogna disporsi ad eleggerlo, a metterlo sopra di noi, a farne oggetto di stima e ammirazione. Oggi non si ammira più nessuno (ci sminuirebbe). Tutt’al più lo si invidia.
Ma poi cosa ammiriamo in qualcuno? Vorrei anche dire a Debenedetti che si può essere “padri” in accezioni molto diverse tra loro. Se una società senza padri interrompe qualsiasi trasmissione di esperienza riusciamo però a immaginare una trasmissione più “orizzontale”? Possiamo riconoscere alcune figure, per noi decisive, e che abbiamo ammirato, come nostri “fratelli”, come fratelli maggiori? Leggendo Camus o Pasolini (e, ad esempio, non Fortini o altri autori pur importanti per la mia formazione!) mi sembra di dialogare mentalmente con dei fratelli, certo più radicali di me, a volte distanti, ma anche fragili e indifesi, come può essere solo un fratello –a cui ci si confida, con il quale si litiga– e non un padre. Un padre infatti, anche quando arriva a togliersi l’elmo, come Ettore di fronte al figlio (gesto a cui ha dedicato un bel libro lo psicoanalista Luigi Zoja), tenderà sempre a non mostrarci per intero la propria debolezza.
Anzi forse con tutti gli scrittori che amato (e ammirano) mi è parso naturale stabilire un legame di fraternità. E allora non sarà che oggi gli unici “padri” autentici, capaci di salvare una continuità con il passato, sono quelli che sentiamo anche un po’ fratelli.