Antonio Debenedetti, Un piccolo grande Novecento

09-01-2006

Un piccolo grande secolo letterario il nostro Novecento, di Sergio D’Amaro


Nello scenario di una Roma ancora tutta da “conquistare” subito dopo la Liberazione, scorrono le lettere e le arti italiane. Nella memoria del critico settantenne: da Moravia alla Morante, da Ungaretti a Fellini, da Rossellini a Flaiano…
Poco più che ventenne Paolo Di Paolo, alla soglia dei settanta Antonio Debenedetti. Si sono incontrati per giorni e giorni e hanno parlato moltissimo. Di Paolo a volte baldanzosamente curioso fino a sembrare il pungiglione di una vespa. Debenedetti disposto generosamente a raccontare la sua vita ricca di incontri e di esperienze. Quel che piace, non secondariamente, nel loro libro-intervista, Un piccolo grande Novecento, è il confronto di due generazioni e la constatazione davvero confortante che i giovani ci tengono ancora e molto alla memoria, sono affamati anch’essi di vita vissuta e di cose importanti.
Della Roma tra anni ’40 e ’80 Debenedetti è una delle memorie portanti. Figlio del celebre critico letterario Giacomo, arriva dalla natia Torino a Roma ancora bambino. Ha negli occhi gli ultimi bagliori del fascismo e la dignitosa serietà della città degli Agnelli. Ma ha già sperimentato gli innamoramenti per l’infinito, il mare e il cielo di Latte in Liguria, soave anteprima di paradiso. Roma coincide quasi con la Liberazione e diventa l’orizzonte davvero rivelatorio di una nuova età. È una città con spazi ancora da conquistare, che da lì a poco saranno trasformati da libero pascolo di greggi a prodotti scandalosi della speculazione edilizia.
L’incontro con Roma è scandito per Debenedetti da alcuni numi tutelari: Moravia, Rossellini, Fellini, Flaiano. C’è ancora viva una società letteraria che va dai cenacoli esclusivi di Cecchi, della de Céspedes, della Bellonci, ai caffè Greco e Rosati: è per Debenedetti, aspirante scrittore già attivo giornalista (prima al “Punto” di V. Calef, poi definitivamente al “Corriere della Sera”), l’ambiente più favorevole per misurarsi col vecchio e col nuovo. Letteratura e cinema, letteratura e arte –l’autore ricorda la cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo” con l’antenna sensibile della galleria ‘La Tartaruga’ di P. De Martiis e del liceo artistico in via Ripetta, in cui era di casa uno come De Libero– nutrono sostanzialmente la sensibilità di Debenedetti, già molto stimolato dall’ambiente familiare dedito alla cultura.
Dalla libera scuola di Caproni, maestro ‘personale’ del nostro, alla recitazione del mistero di Ungaretti, incontrato alla Facoltà di Lettere della Sapienza negli anni ’50 in veste di professore e soprattutto di poeta ex cathedra (cattedra che sapeva trasformare in palcoscenico per le sue famose performances orali e gestuali), Debenedetti capisce dove può spingersi il linguaggio: il mestiere si affila nella memoria e nell’analisi attenta della realtà, si nutre di sogni, di contraddizioni, di cieli antichissimi e di consolidate certezze.
Quando scompaiono Moravia (nel ’90) e Fellini (nel ’93) Debenedetti –lo dice al suo giovane interlocutore– ha sentito finire un’epoca, spezzarsi per sempre un mondo di sicurezze e di maestri. Tanti altri hanno abitato quel mondo: Saba (che fu ospite in casa Debenedetti), Montale, Soldati (l’adorabile commediante, il musicista della pagina), Bassani (un vero “rabbì”, ebraicamente parlando), Savinio (che riuscì elegantemente a épater les bourgeois), Gadda (un vero mistero), la Morante (forse la più grande scrittrice del secondo Novecento), Vespignani (il Trilussa del pennello), e tanti, ancora tanti altri.
Le domande incalzanti del giovane Di Paolo (che possiamo forse annoverare come enfant prodige e, di più, enfant terribile: chi, alla sua età, si orienta già così bene nella letteratura del Novecento?) sembrano confluire ad un estuario di bilanci.
L’intervistatore confessa i suoi molti viaggi fatti pendolarmente tra un paese dei Castelli e Roma (in treno o su una vecchia utilitaria), indotto allo scavo spasmodico di quella vera miniera memoriale che è Debenedetti.
Capire i tempi che viviamo è interpretare una città come Roma, che oggi, dice lo scrittore, è una città incomprensibile, non ancora raccontabile. È come se il vecchio palcoscenico della capitale, fatto di innumerevoli stratificazioni, avesse tirato via le sue luci e avesse fatto avanzare un’ombra; ed è come se Debenedetti si chiedesse attonito il senso del tempo e il passare precipitoso di tante generazioni. Insomma, si avverte in tutta la sua portata l’ebbrezza e la vertigine, quasi, del rammemorare.
In questa nobile impresa di recupero il giovane Di Paolo si è sentito in dovere morale, in debito di ascolto, quasi a nome della sua generazione, e ne ha tratto una lezione di lenta, attenta auscultazione archeologica di che cos’è la vita e la letteratura.