Debenedetti: "Vi racconto il Novecento e i suoi maestri", di Pietro Vernizzi
Una conversazione ricca di aneddoti su scrittori e artisti conosciuti personalmente e frequentati fin da bambino. È questo in sintesi Un piccolo grande Novecento di Antonio Debenedetti, narratore e critico sessantanovenne nato a Torino e residente a Roma dai suoi primissimi anni. Realizzato sotto forma di intervista, a cura del giovane narratore Paolo Di Paolo, il libro (Manni, 176 pp, 14 euro) è una serie di agili ritratti di personaggi della levatura di Alberto Moravia, Federico Fellini, Carlo Emilio Gadda e Giuseppe Ungaretti, raccontati dal punto di vista inedito di chi li ha incontrati per strada, al ristorante, a casa loro o li ha intervistati.
Lei ha affermato che il suo libro è un tentativo di «parlare con obiettività degli scrittori italiani che secondo me hanno contato di più nell’ultimo mezzo secolo». È un compito impegnativo ...
«La mia scelta non si è basata su giudizi di valore. In questo volume parlo degli scrittori che ho conosciuto e incontrato. Non è una storia della letteratura, ma una raccolta di ricordi. Non ci sono dunque criteri di esclusione: per esempio non parlo di Pirandello, che pure ammiro molto, per il semplice fatto che quando lui è morto non
ero ancora nato».
Nella loro vita privata, grandi autori quali Gadda e Ungaretti erano diversi da come si ponevano scrivendo?
«Quella tra persona e artista è una distinzione che non esiste. Quando la mattina mi faccio la barba, guardandomi allo specchio, non vedo due figure, l’uomo e lo scrittore, ma una sola, la mia. E quello che vale per me vale per tutti gli autori».
Nel libro scrive che con Moravia e Fellini finisce l’epoca dei grandi maestri. Non pensa che ciò sia legato al fatto che oggi si fa più fatica a riconoscere qualcun altro come autorevole?
«No, credo che sia una cosa oggettiva, testimoniata dalle loro opere. Nel mondo letterario o cinematografico attuale non vedo altre persone con una statura paragonabile alla loro. Verranno altri maestri, ma adesso ci sono solo bravi scrittori o registi».
Dove sta la differenza?
«Il maestro è colui che interpreta i sogni, le speranze e i desideri di un’epoca. Nessuno oggi per esempio è in grado di raccontare la città di Roma come hanno fatto Moravia nei suoi libri o Fellini nei suoi film».
Quali sono stati i suoi maestri?
«Tutta la giovinezza di uno scrittore si svolge nella ricerca di un maestro. Io devo molto soprattutto a Gadda e a Emilio Cecchi».
Anche Giorgio Caproni, se non sbaglio, è stato suo maestro...
«Sì, ho avuto la fortuna di incontrarlo come insegnante quando frequentavo le elementari. Lo ricordo come un docente fantasioso, che usava metodi originali e pieni d’inventiva, stimolando al massimo la creatività dei suoi alunni».
Alberto Arbasino, scrittore e suo grande amico, ha composto un romanzo dal titolo La bella di Lodi. Un omaggio alle bellezze lodigiane?
«Questo non lo so, nell’ispirazione che dà origine a un’opera letteraria c’è sempre qualcosa di misterioso. Quello che posso dire è che Arbasino è uno degli autori del secondo Novecento che apprezzo di più. Fratelli d’Italia, tra gli altri, è un romanzo epocale».
Perché ha deciso di realizzare questo libro sotto forma di conversazione con Di Paolo?
«È stato un modo per concentrare l’attenzione sulle figure di cui parlo invece che su me stesso, rimanendo fedele ai personaggi che avevo incontrato. Di Paolo mi ha aiutato a mettere ordine fra i miei ricordi, permettendomi di presentarli attraverso un’agile narrazione».