Un'epoca addosso, di Massimo Onofri
C’è qualcosa di commovente in questo libro-intervista di Antonio Debenedetti. E sta nella smentita che si deve dare a una risposta che Antonio fornisce, con brusca perentorietà, a Paolo Di Paolo, quando lo interroga sull’esistenza di una società letteraria nell’Italia di oggi: “La risposta, amico mio, è no!”. È difficile, infatti, non avvertire una consentaneità di sentimenti, un generoso commercio di idee, tra lo scrittore noto, e dal cognome numinoso, quasi alle soglie dei suoi settant’anni, e il poco più che ventenne interlocutore. È difficile non avvertirla, questa complicità, colta e adulta com’è: quando invece tendiamo a pensare che un abisso si sia scavato tra gli scrittori nati prima della seconda guerra, come Debenedetti, e le ultime generazioni euforicamente televisive, divise, magari, tra Baricco e Jovanotti. Tanto più se è proprio il freschissimo Di Paolo, eppure già letterato sino alle midolla, ad affidarci parole così: “Correndo a Termini dalla casa di Antonio correvo con l’allegria stupefatta di incontri inattesi e tanto più preziosi; e ogni volta con un’epoca addosso attraversata, con parecchie vite aggiunte alla piccolissima mia, e voci nuove, ascoltate tutte in quella del mio interlocutore casuale e adesso familiare –come il bel ritratto paterno firmato Casorati appeso in salotto, come le pile di libri sui divani che ritrovano e ritrovo sempre più alte, torri di carta e parole pericolosamente in bilico”.
Ecco, così ci sentiamo anche noi, pagina dopo pagina: “con un’epoca addosso”, mentre tante vite memorabili si allineano, aggiungendosi alla nostra. Ma che libro è questo di Debenedetti? Impossibile non leggerlo anche come un prolungamento dell’implacabile e delizioso Giacomino (1994), nonostante Antonio si neghi, con Di Paolo, a proseguire il discorso: “Aggiungo anche di aver scritto con Giacomino un libro generoso, appassionato e sincero. Un libro sofferto, drammatico, l’unico che potesse scrivere un figlio senza rinnegare il suo edipo, l’importanza del suo edipo conseguente proprio all’estrema importanza del rapporto avuto con il padre. Non mi chieda altro”. Impossibile, dicevo: perché Giacomo resta presente, e incombente, pur essendo sostanzialmente assente, mentre Antonio s’incammina dentro il romanzo della sua formazione, nel mondo che è lo stesso del padre, e che il padre signoreggia con la sua autorevolezza già leggendaria. Però, per diventare ciò che era, Antoni, avviato prestissimo alle lettere –fondamentale l’esperienza di “Il Punto”–, si troverà a scegliere come maestri Moravia e Fellini, non esimendosi poi da un giudizio, su se stesso e i suoi coetanei: “Con la fine di Moravia e di Fellini, sul piano culturale e non solo, anche Roma avrebbe cominciato a morire. Le mie, le nostre sono generazioni di orfani incapaci di diventare padri”.
Ha ragione Antonio: se non altro perché la condizione d’orfanezza vale come una delle chiavi per penetrare nella sua intera opera di narratore, mentre lo spazio che corre tra Moravia e Fellini ha potuto davvero fungere da camera iperbalica di un’immaginazione che conserva tutti i lividi della realtà, tutte le costrizioni. Non vorrei indugiare. Perché questo libro di formazione si può anche leggere come uno dei romanzi –e tra i più folti– ove s’accampa uno dei corpi della nostra letteratura secondonovecentesca. Sono pochi coloro che mancano all’appello. Oltre Moravia e Fellini, ecco Caproni, Ungaretti, Brancati, Conti, Morante, Penna, Pasolini, Bertolucci, Bassani, Gallo. Soldati, Ginzburg, Carlo Levi, Manganelli, Gadda, Palazzeschi, Manzini, De Libero, Cardarelli, Vigolo, Flaiano, Savinio, D’Arrigo, Parise, Pampaloni, Baldacci, Garboli. Per stare solo a chi non c’è più.
Non vorrei tacere ora del piacere di chi trova dispiegata al meglio, e in miracolosa velocità, l’arte del ritratto: quella di chi sa ricambiare la sorte per avergli riservato così straordinari incontri. Ma l’impagabile del libro sta nel tono: di un’alta e leggerissima conversazione, puntualissima pur nei modi di un’apparente svagatezza. Un tono, e una conversazione, che sembrano il precipitato, e la condensazione malinconica, di quelle che avvenivano, in un’altra Italia, e dentro ben più ridenti speranze, nei salotti di Alba de Céspedes e Maria Bellonci: laddove salotto, però, faceva rima solo con civiltà. Antonio parla piacevolmente: rilutta all’aneddoto, ma non al dettaglio. Perché il ritratto non gli si disgiunge mai da un’interpretazione critica. Si sa: della critica il dettaglio resta il fondamento. Qualche esempio? Toti Scialoja e il suo passato di pittore figurativo: “Credeva troppo in quello che faceva per credere anche in quello che aveva fatto”. Guttuso: “Era naturalmente materialista così come altri sono mistici. Aveva l’hic et nunc, il qui e l’ora della vita, già nell’espressione del volto”. Difficile, in così poco, dire meglio.