Una generazione in cerca di maestri, di Paolo Di Paolo
Forum. Un dibattito in corso sui «padri» o i «fratelli» degli autori. Esistono? Sono come nel passato? E che ruolo svolgono? E quanto durano? Eraldo Affinati, Paola Capriolo, Raffaele La Capria e Dacia Maraini danno le loro spiegazioni. Ma gli interrogativi restano
Si può raccontare l’origine di un libro? Un piccolo grande Novecento, appena pubblicato da Manni, è un libro che nasce da molte domeniche, conversando con Antonio Debenedetti intorno al «suo» secolo, agli anni che ne ha attraversato in veste di scrittore e di testimone, agli uomini e alle donne (artisti e no) che ha incontrato e di cui è stato amico. La sua conversazione, che si traduce - riprendo un’espressione di Benedetta Centovalli - in «una speciale scuola di lettura», lascia spesso in chi ascolta l’impressione di avere davanti un misterioso confidente degli dèi. Uno che ha giocato nel giardino di Croce a Sorrento e ha avuto Saba in casa, come una specie di nonno adottivo, e Caproni come maestro elementare.
Ai più, capita di incontrare i poeti soltanto nei libri, e di sentirli perciò distanti come altre galassie, di pensarli senza un corpo, quasi (e senza un volto, anche: ché nelle antologie scolastiche le fotografie non le mettono mai). Questo libro-conversazione con Debenedetti poteva intitolarsi “Gli dèi in salotto”, perché racconta di lunghe consuetudini con personaggi che il tempo - passando e allontanandoceli - ha reso ai nostri occhi carichi di fascino e di saggezza, come avvolti nello scintillio dell’intelligenza. Erano dèi davvero? Mi sorprendo a ricordare uno scritto di Marcel Detienne: spiegava come gli dèi greci fossero vulnerabili, e come spesso rimanessero feriti per mano d’uomo e sanguinassero «di un sangue non umano, ma non meno prezioso per la loro vita». Parlava di come essi sperimentassero il pericolo, a causa degli uomini, di come improvvisamente fossero stanchi del loro vano agitarsi. «Audaci e timorosi, generosi e francamente pigri: talvolta trovano naturale ferirsi a morte, talaltra preferiscono salvarsi la “bella pelle” (…). Ma l’essenziale sembra che il campo del possibile è molto vasto, molto aperto davanti agli dei. Così vasto e ricco, che il desiderio e la capacità di schivare i colpi - gli dei dell’Olimpo possono, è chiaro, involarsi, sparire in ogni momento - sta accanto all’eventualità ammessa della sofferenza. Il possibile giunge fino al limite del rischio di morte».
Così pure gli dèi del salotto di casa Debenedetti: audaci e timorosi, generosi e francamente pigri; capaci di eroismi e meschinità, di bassezze e di miracolosi magisteri. Ché - cito ancora Detienne - «il comportamento generale di queste potenze inclina all’impegno, a fianco degli uomini, lungo il loro cammino». Spingiamoci ancora oltre. Debenedetti racconta che, con la morte di Moravia e di Fellini, per lui ha avuto fine l’età degli dèi, dei maestri. Sul “Corriere della Sera” del 28 ottobre scorso, il critico Filippo La Porta ha riflettuto su queste affermazioni: è dunque finita l’età dei maestri? Gli dèi sono spariti? «È anche vero - scrive La Porta - che non disponiamo della distanza necessaria per capire il valore autentico dei nostri contemporanei. (…) L’esistenza di un maestro non dipende tanto da lui, da ciò che fa o da come si propone, quanto dagli altri, dal fatto cioè che ci sia qualcuno disposto a riconoscerlo in quanto tale. Per avere un maestro bisogna disporsi ad eleggerlo, a metterlo sopra di noi, a farne oggetto di stima e ammirazione. Oggi non si ammira più nessuno (ci sminuirebbe). Tutt’al più lo si invidia».
L’altra questione riguarda il riconoscimento di «alcune figure, per noi decisive, e che abbiamo ammirato come nostri “fratelli”, come fratelli maggiori»: «Leggendo Camus o Pasolini - spiega La Porta - mi sembra di dialogare mentalmente con dei fratelli, certo più radicali di me, a volte distanti, ma anche fragili e indifesi, come può essere solo un fratello - a cui ci si confida, con il quale si litiga - e non un padre». Riguardo al concetto di scrittori fraterni, non si può non citare a questo punto Franco Cordelli. «Io vorrei sostenere qui - diceva rispondendo a un’intervista per “Il Manifesto” -, fuor di cronologia e di seriazione storica, che la letteratura italiana migliore è quella che ci comunica un senso di fraternità. «Padre» degli scrittori fraterni è Italo Svevo, e parliamo di uno che nel canone dell’establishment c’è. È uno scrittore a cui voglio molto bene, sono contento che sia esistito, mi darebbe gioia incontrarlo, non so dove». E ancora: «I libri veramente importanti sono quelli che non solo spostano la nostra ottica sul mondo, ma che anche ci consolano, cioè ci accompagnano in modo caldo e fraterno».
In una breve e densa lettera, Andrea Cortellessa ha domandato in proposito a Cordelli: «Non le pare che lo spazio di una testualità comunicativa si apra tanto più fraterno, tanto più consolante (per favore non diciamo consolatorio), sempre dopo? Che le stelle brillino davvero solo dopo aver traversato una selva oscura?». E così, anche nella definizione di «fraternità» entra, a complicare le cose, la questione del «dopo», della distanza - la fine della traversata, come dice Cortellessa. Riconoscere la grandezza (fraterna o paterna) di uno scrittore «in un contesto simile a quello attuale - sono ancora parole di Cordelli - sembra impossibile. Quali sono i metri di paragone? Quali i metri di giudizio? Chi condividerà i valori che ciascuno propone?». Gli interrogativi restano aperti, e si allargano anche a ambiti estranei alla letteratura.
In un libro pubblicato in Italia un anno fa (La lezione dei maestri, Garzanti), George Steiner definisce quella attuale l’età dell’irriverenza: «Le cause di questa profonda trasformazione sono dovute a rivoluzioni politiche, a sommosse sociali e allo scetticismo che le scienze portano con sé. L’ammirazione, per non parlare della reverenza, è passata di moda. Siamo assuefatti all’invidia, alla denigrazione e a un livellamento verso il basso». È dunque la mancanza di «disponibilità» (all’ammirazione, all’apprendistato) di noi contemporanei che ha spopolato (sempre che sia così) di maestri il nostro orizzonte culturale? Stilos lo ha chiesto a Paola Capriolo: «Indipendentemente dal fatto che nella cultura contemporanea esistano oppure no figure dotate dell’autorevolezza dei grandi “maestri” del passato, credo che la questione essenziale sia davvero la nostra incapacità, quand’anche esistessero, di prestare loro un autentico ascolto. Le tendenze più profonde della nostra società escludono in misura crescente questo tipo di attenzione, in primo luogo perché, ossessionata com’è dall’attualità, essa non concede a nulla il tempo di maturare, e in secondo luogo perché si fonda sempre più su una sorta di narcisismo delle masse che amano veder rispecchiate ovunque se stesse, il loro livello medio, e reagiscono addirittura con fastidio a tutto ciò che si pone “al di sopra”. Questa circostanza, che non riguarda soltanto la letteratura, provoca una spaventosa involuzione della vita culturale e della vita pubblica in generale, involuzione di cui i mezzi di informazione sono complici se non addirittura fautori. Così, se maestri ancora esistono, sono paradossalmente destinati a rimanere senza discepoli, mentre trionfano in tutti i campi gli uomini di spettacolo, dei quali lo scrittore, il poeta, il filosofo, finiscono con il diventare una semplice sottospecie».
Leggo ancora in La lezione dei maestri: «I nostri idoli devono esibire una testa d’argilla. Quando aleggia dell’incenso, va in direzione di atleti, pop star, gli ossessi del denaro o i re del crimine. La celebrità, nel modo in cui satura la nostra esistenza mediatica, è il contrario della fama», riflette Steiner - tuttavia convinto che (pure in forme imprevedibili) la «lezione dei maestri» possa (debba) sopravvivere all’impeto di scientismo, femminismo, democrazia di massa e potere dei media, in forza della «libido sciendi» che è «un motto inciso negli uomini e nelle donne migliori». Così pure, sempre per non cedere alla «debilitante Retorica della Fine» (La Porta), a Luca Doninelli è capitato recentemente di citare Wittgenstein e dire che «bisogna essere sempre pronti a imparare qualcosa di completamente nuovo» dagli altri. Padri, fratelli, cugini, figli, non importa.
Dice Eraldo Affinati a Stilos: «I maestri torcono lunghi righelli senza spezzarli: come faranno? Scrivevo così, da ragazzo. Chissà, forse pensavo che fossero depositari di saggezze e segreti capaci di preservarli dalle miserie comuni. Col tempo ti rendi conto che, soprattutto loro, sono pieni di cicatrici: chi vive sbaglia. E questo non fa che renderteli ancora più cari. Ricordo Walter Binni, all’università. Le sue lezioni su Leopardi mi hanno toccato nel profondo. Era come se, attraverso di lui, sentissi il respiro della civiltà letteraria italiana. Per me i maestri sono sempre stati gli scrittori: in quale modo mi parlano? Con i personaggi. Ieri: Pierre di Tolstoj, Lord Jim di Conrad, Nick di Hemingway, Milton di Fenoglio. Oggi: Joe di Richard Ford, David di Coetzee, Austerlitz di Sebald, Henry di McEwan. Ma c’è dell’altro. Li pensiamo sempre più in alto di noi, i maestri: e se invece quelli capaci di insegnarci qualcosa stessero anche in basso? Lo sguardo di certi miei ragazzi a scuola a volte me lo fa credere».
Allora, per tornare alla conversazione con Antonio Debenedetti, che cos’è che più ci commuove negli uomini che lui definisce maestri? La fraternità o la paternità? La distanza e l’esempio, o le cicatrici? O tutt’e due?
Risponde Raffaele La Capria al telefono: «I maestri, vai a sapere chi sono!». Secondo La Capria, in Un piccolo grande Novecento, Debenedetti introduce un criterio di analisi della letteratura e degli scrittori che è tutto personale: da scrittore - mi dice - ci dà dei ritratti, delle impressioni, delle immagini che, mescolate ai ricordi, fanno risaltare dal vivo certi tratti della letteratura del periodo di cui lui parla. E tutto questo forma l’originalità del suo modo di accostare gli scrittori, restituendoci mirabilmente il tono della loro conversazione, facendoceli sentire insomma «vicini», «simpatici». «È questo che conta!».
D’altronde, un libro abbastanza recente di La Capria, molto bello, Lo stile dell’anatra, inizia proprio con il concetto di «simpatia» come forma di conoscenza. Rispondendo alle domande di Emanuele Trevi (Letteratura e libertà, Quiritta), La Capria l’ha ulteriormente approfondito: «Noi, per abitudine, connettiamo la “simpatia” esclusivamente a un’idea, certo nobile, del bene... ma non si tratta solo di questo: la posta in gioco, infatti, è anche quella della propria salvezza, della possibilità di salvarsi. Capisci allora quanto può essere importante, attraverso il mezzo della simpatia, il gesto di proiettarsi verso l’altro, che essenzialmente significa: capire quanto pesa il mondo sulle spalle dell’altro».
È questo che fa un maestro, un padre, un fratello? «Capire quanto pesa il mondo sulle spalle dell’altro». È questo che deve fare uno scrittore? E ancora, soprattutto: è davvero finita l’età dei maestri? Dice a Stilos Dacia Maraini: «A me sembra che il periodo del rifiuto dei maestri sia passato. Il culmine della rivolta contro i modelli e le gerarchie l’abbiamo vissuto (per chi l’ha vissuto, come me), alla fine degli anni Sessanta. Il Sessantotto è nato proprio su questo assunto: via le gerarchie, via le discriminazioni di sesso e di età, via i privilegi tradizionali di chi sta sopra nei riguardi di chi sta sotto, via le guide spirituali, via i capi prestabiliti, ricostruiamo il mondo secondo nuove regole di uguaglianza e parità. Da allora molte cose sono cambiate. La “reverenza” forse è scomparsa, gettata via distrattamente, come il bambino assieme all’acqua sporca. Della reverenza si può anche fare a meno. Ma assieme alla reverenza si sono gettate via: la voglia di apprendere da chi ha vissuto più di noi, l’umiltà umana dell’allievo di fronte al maestro, l’ammirazione per chi ha scritto o composto qualcosa di bello, il riconoscimento di una autorità dovuta al prestigio e non al potere. Ora mi pare che la voglia di avere dei maestri sia tornata fuori prepotente. Naturalmente si tratterà di maestri scelti liberamente, per stima e non imposti dall’alto, per ragioni di anzianità o di forza, ma anche solo di moda culturale. Basta leggere le panoramiche che regolarmente vengono stampate sui giornali e sui settimanali per indicare gli scrittori di valore del ‘900. Il guaio di queste panoramiche letterarie è che, ancora oggi, non vi si trova mai un nome di donna. Io ho sempre amato i maestri, quelli scelti da me s’intende, e non ho mai “sputato su Hegel”. Ho sentito però l’ingiustizia di una discriminazione sessuale: si parlava e si continua a parlare di maestri al maschile. Ma le donne di prestigio dove sono? Già la parola maestro è impronunciabile al femminile: maestra è quella che insegna nelle scuole elementari, non arriva mai a farsi esempio di virtù intellettuali e artistiche.
«Riepilogando: io sono per i maestri, purché scelti liberamente per la stima che ci ispirano, per le emozioni che ci hanno dato nel leggere i loro libri. Detto questo, aggiungerei alle liste un certo numero di “maestre”, che non sono davvero da meno e che dovrebbero costituire un esempio per le generazioni a venire. Insomma, quando si fa il riepilogo dei grandi del Novecento si parla di Calvino, di Gadda, di Moravia, di Pasolini, di Cassola, di Soldati, di Parise e di tanti altri, ma non si fanno mai nomi femminili. Secondo me invece, ci sono senz’altro (sempre parlando del Novecento) almeno dieci scrittrici che i lettori considerano già dei classici, ma i letterati e i critici no. Parlo di Grazia Deledda, di Anna Maria Ortense, di Lalla Romano, di Elsa Morante, di Natalia Ginzburg, di Fausta Cialente, di Anna Banti, tanto per citare alcuni nomi».
09/01/2006 - La Gazzetta del Mezzogiorno
Un piccolo grande secolo letterario il nostro Novecento, di Sergio D’Amaro
Nello scenario di una Roma ancora tutta da “conquistare” subito dopo la Liberazione, scorrono le lettere e le arti italiane. Nella memoria del critico settantenne: da Moravia alla Morante, da Ungaretti a Fellini, da Rossellini a Flaiano…
Poco più che ventenne Paolo Di Paolo, alla soglia dei settanta Antonio Debenedetti. Si sono incontrati per giorni e giorni e hanno parlato moltissimo. Di Paolo a volte baldanzosamente curioso fino a sembrare il pungiglione di una vespa. Debenedetti disposto generosamente a raccontare la sua vita ricca di incontri e di esperienze. Quel che piace, non secondariamente, nel loro libro-intervista, Un piccolo grande Novecento, è il confronto di due generazioni e la constatazione davvero confortante che i giovani ci tengono ancora e molto alla memoria, sono affamati anch’essi di vita vissuta e di cose importanti.
Della Roma tra anni ’40 e ’80 Debenedetti è una delle memorie portanti. Figlio del celebre critico letterario Giacomo, arriva dalla natia Torino a Roma ancora bambino. Ha negli occhi gli ultimi bagliori del fascismo e la dignitosa serietà della città degli Agnelli. Ma ha già sperimentato gli innamoramenti per l’infinito, il mare e il cielo di Latte in Liguria, soave anteprima di paradiso. Roma coincide quasi con la Liberazione e diventa l’orizzonte davvero rivelatorio di una nuova età. È una città con spazi ancora da conquistare, che da lì a poco saranno trasformati da libero pascolo di greggi a prodotti scandalosi della speculazione edilizia.
L’incontro con Roma è scandito per Debenedetti da alcuni numi tutelari: Moravia, Rossellini, Fellini, Flaiano. C’è ancora viva una società letteraria che va dai cenacoli esclusivi di Cecchi, della de Céspedes, della Bellonci, ai caffè Greco e Rosati: è per Debenedetti, aspirante scrittore già attivo giornalista (prima al “Punto” di V. Calef, poi definitivamente al “Corriere della Sera”), l’ambiente più favorevole per misurarsi col vecchio e col nuovo. Letteratura e cinema, letteratura e arte –l’autore ricorda la cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo” con l’antenna sensibile della galleria ‘La Tartaruga’ di P. De Martiis e del liceo artistico in via Ripetta, in cui era di casa uno come De Libero– nutrono sostanzialmente la sensibilità di Debenedetti, già molto stimolato dall’ambiente familiare dedito alla cultura.
Dalla libera scuola di Caproni, maestro ‘personale’ del nostro, alla recitazione del mistero di Ungaretti, incontrato alla Facoltà di Lettere della Sapienza negli anni ’50 in veste di professore e soprattutto di poeta ex cathedra (cattedra che sapeva trasformare in palcoscenico per le sue famose performances orali e gestuali), Debenedetti capisce dove può spingersi il linguaggio: il mestiere si affila nella memoria e nell’analisi attenta della realtà, si nutre di sogni, di contraddizioni, di cieli antichissimi e di consolidate certezze.
Quando scompaiono Moravia (nel ’90) e Fellini (nel ’93) Debenedetti –lo dice al suo giovane interlocutore– ha sentito finire un’epoca, spezzarsi per sempre un mondo di sicurezze e di maestri. Tanti altri hanno abitato quel mondo: Saba (che fu ospite in casa Debenedetti), Montale, Soldati (l’adorabile commediante, il musicista della pagina), Bassani (un vero “rabbì”, ebraicamente parlando), Savinio (che riuscì elegantemente a épater les bourgeois), Gadda (un vero mistero), la Morante (forse la più grande scrittrice del secondo Novecento), Vespignani (il Trilussa del pennello), e tanti, ancora tanti altri.
Le domande incalzanti del giovane Di Paolo (che possiamo forse annoverare come enfant prodige e, di più, enfant terribile: chi, alla sua età, si orienta già così bene nella letteratura del Novecento?) sembrano confluire ad un estuario di bilanci.
L’intervistatore confessa i suoi molti viaggi fatti pendolarmente tra un paese dei Castelli e Roma (in treno o su una vecchia utilitaria), indotto allo scavo spasmodico di quella vera miniera memoriale che è Debenedetti.
Capire i tempi che viviamo è interpretare una città come Roma, che oggi, dice lo scrittore, è una città incomprensibile, non ancora raccontabile. È come se il vecchio palcoscenico della capitale, fatto di innumerevoli stratificazioni, avesse tirato via le sue luci e avesse fatto avanzare un’ombra; ed è come se Debenedetti si chiedesse attonito il senso del tempo e il passare precipitoso di tante generazioni. Insomma, si avverte in tutta la sua portata l’ebbrezza e la vertigine, quasi, del rammemorare.
In questa nobile impresa di recupero il giovane Di Paolo si è sentito in dovere morale, in debito di ascolto, quasi a nome della sua generazione, e ne ha tratto una lezione di lenta, attenta auscultazione archeologica di che cos’è la vita e la letteratura.