01/12/2005 - Il Secolo d'Italia
L'emozione? Ungaretti che legge Leopardi, di Nicola Vacca
Antonio Debenedetti è una memoria storica del nostro mondo letterario. Figlio del critico Giacomo, ha avuto il privilegio di conoscere i più importanti tra poeti e scrittori del Novecento.
Seguendo professionalmente le orme paterne, Debenedetti si è occupato di libri per tutta la sua vita. Oggi è ancora una delle firme più autorevoli della Terza pagina del “Corriere”.
Al meraviglioso mondo della società letteraria del secondo Novecento, Antonio ha deciso di dedicare un libro di ricordi e impressioni. In Un piccolo grande Novecento (Manni editori, pagg. 175, euro 14) l’autore conversa con il giovane scrittore Paolo di Paolo, aprendo l’archivio della memoria di casa Debenedetti.
In presa diretta con una poetica nostalgica, Antonio Debenedetti si racconta attraverso i più grandi scrittori del secolo scorso, che ha avuto la fortuna di incontrare e di conoscerne in maniera approfondita vizi e virtù.
Siamo di fronte a un bilancio esistenziale, che mette a confronto le esperienze letterarie di grandi scrittori e poeti che con le loro idee e le loro opere hanno impreziosito un secolo ricco di grandi contraddizioni.
Ci sono proprio tutti: Dario Bellezza, Giorgio Caproni, Giuseppe Ungaretti, Mario Soldati, Alberto Moravia, Sandro Penna, Vincenzo Cardarelli, e molti altri ancora. Debenedetti ha avuto il grande privilegio di poterli più volte incontrare, trascorrere molto tempo a parlare con loro di libri, letterature e molto altro.
Il critico letterario, ma anche lo scrittore, ha deciso di rendere pubblica la sua memoria, ma anche di dare sfogo a quella più privata e intima, sui bellissimi anni del Novecento letterario.
Noi lettori dobbiamo sospendere il giudizio e metterci in ascolto dei suoi ricordi, che ci raccontano la sua esperienza con i grandi maestri della scrittura novecentesca.
"Caproni -riferisce Antonio Debendetti- mi ha insegnato la dissacrazione, la libertà di ribellarsi senza ferire nessuno, nemmeno se stessi. Mi ha insegnato (cosa ancora più importante) a pensare".
Sempre attingendo a meravigliosi brandelli di memoria autobiografica, Debenedetti racconta il suo primo incontro con Giuseppe Ungaretti. Il giovane Antonio si recò a casa del grande maestro con una copia fresca di stampa del suo primo libro di poesie. Ungaretti abitava a Piazza Remuria e stava preparandosi a un trasloco. Il poeta era in maniche di camicia portava pile di libri da una stanza all’altra. Prese in mano il libro di Debendetti e disse: "Sono straane, straane", con l’a allungata all’inverosimile lo riempì di una felicità incredibile. "A diciotto anni si è orgogliosi –scrive Debenedetti- e felici di venir considerati strani".
In seguito Antonio ha incontrato Ungaretti sui banchi dell’Università, rimanendo colpito dal modo affascinante con il quale il poeta dell’Allegria raccontava la poesia: "Affascinanti. Il modo in cui leggeva Leopardi era talmente emozionante che non c’era bisogno di spiegazioni: la lettura stessa era una lezione. E poi c’erano i suoi occhi, che pungevano scintillando, luminosi come gli occhi, che pungevano scintillando, luminosi come gli occhi d’un uccello predatore; e la voce, trascinata e trascinante, che sembrava cercare le parole in un deserto. Scavava, soffriva e alla fine le disseppelliva, da chissà quali profondità… antiche come la luna, essenziali, insostituibili, ricche di misteriose fosforescenze".
In tutte le pagine di questo libro si trovano i segni di quella grande civiltà letteraria che è stata la storia novecentesca italiana, raccontata da uno dei suoi protagonisti più veri.
Debenedetti, nel gioco delle domande e delle risposte di questa lunga conversazione, ha messo sul tavolo della memoria i sentimenti di una vita passata a leggere libri, ma anche ad amare la lezione di grandi maestri di scrittura e del pensiero, che hanno avuto la fortuna di attraversare la sua vita.
"I libri sono, -scrive ancora Debenedetti- fino a un certo punto della vita, dichiarazione d’amore fatte a virtuali, future amanti. Si sbagliano, in molti casi, per eccesso di generosità verso la vita. Più tardi diventano biglietti di viaggio per cercare di assicurarsi un posto nell’aldilà. Ci si mette dentro il minestrone dei sentimenti e lo si cucina al fuoco avaro dell’esperienza".
Nel suo guardarsi indietro Antonio Debenedetti, che ha attraversato il secondo Novecento da scrittore, da protagonista, da critico, con grande trasporto emotivo affida la sua confessione di spettatore privilegiato delle trame novecentesche a un giovane scrittore. Due generazioni a confronto. Con la speranza che di quella grande lezione del Novecento rimanga ai posteri qualcosa di scritto. Soprattutto oggi che la letteratura contemporanea sembra preferirei sempre più l’autoreferenzialità alla consolidata esperienza di una società letteraria di cui Debenedetti è stato ieri protagonista, oggi testimone sentimentale.
Insomma un libro importante che rievoca tutta l’umanità di un mondo letterario popolato di grandi maestri. C’è tutta la grande lezione del Novecento con le sue voci più importanti. Quella grande lezione oggi va riproposta. La sua vitalità creativa può essere necessaria alla nostra epoca in cui si avverte l’assenza di maestri di luce. Al “piccolo grande Novecento” di Debenedetti dovrebbe guardare l’attuale società letteraria, abituata a dimenticare troppo in fretta.
02/12/2005 Il Corriere della sera - Roma
I Debenedetti. E la letteratura del ’900 attraversò una casa di Roma, di Paolo Fallai
Nella casa di Giacomo Debenedetti è passato mezzo Novecento letterario italiano. L’altra metà veniva studiata. Agli stranieri toccava un trattamento più informale: il piccolo Antonio - destinato a una lunga carriera di «recensore di complemento» - appena vide Neruda lo prese a ciabattate.
D’altronde provateci voi a crescere facendovi correggere i compiti da Giorgio Caproni, a fare chiasso - come ogni bambino deve fare - mentre tuo padre parla con Moravia o con Alberto Savinio, o a essere impertinenti di fronte ai tanti cappotti destinati a placare l’implacabile freddo di Cardarelli. Antonio Debenedetti ha lo straordinario pregio di non essersi fatto schiacciare da così tanta presenza e di aver messo questa irripetibile stagione al servizio della sua vita di scrittore e giornalista. Poco più di dieci anni fa, con Giacomino, il libro dedicato al padre, Debenedetti ha idealmente saldato questo debito di formazione. Ma è forse in quattro decenni di giornalismo culturale - sulle pagine del Corriere della Sera ma anche in tanti «speciali» televisivi - che Antonio ha messo questa conoscenza a frutto di una galleria di ritratti ripresi da un angolo di visione del tutto originale.
Oggi questa lunga stagione si ritrova nelle pagine di una intervista concessa a Paolo Di Paolo e raccolta in volume dall’editore Manni sotto il titolo: Un piccolo grande Novecento. È un libro che affronta con grande leggerezza un viaggio tutt’altro che semplice tra relazioni affettive, complicità intellettuali, incanti e disillusioni. Si può leggere come una favola e tenerlo come preziosa fonte di consultazione.
Un viaggio che comincia con i primi ricordi di questo testimone privilegiato, nella Roma di fine anni Trenta: una città «dotta, creativa, vivace, ma anche ricca di contraddizioni e incapace di reagire al fascismo». Moravia accompagna per un lungo tratto queste pagine, presenza costante nell’infanzia e nell’adolescenza di Antonio Debenedetti: ma solo il giornalista ormai adulto riuscirà a costruire un rapporto incontrando a più riprese lo scrittore affermato. «Moravia parlava di Roma, almeno con me - racconta Antonio Debenedetti - come si parla di una persona di famiglia: per disappunto o per amore. La freddezza che a volte ostentava era una recita».
Un’ampia parte del libro è dedicata al cinema («Abbiamo imparato a raccontare i sentimenti, a strutturare le storie, a dividere ciò che diverte da ciò che è superfluo») e alla poesia. A cominciare dalla presenza fondamentale di Giorgio Caproni («Mi ha insegnato la dissacrazione, la libertà di ribellarsi senza ferire nessuno»). Alla pittura, pure così presente nella formazione di Antonio anche grazie all’insegnamento della madre, Renata Orengo. Con una particolare predilezione per la dualità di straordinari personaggi come Savinio, «un grande pittore che scrive i suoi quadri» o «Toti poeta, Scialoja pittore», testimoni viventi di un inscindibile talento.
Un piccolo grande Novecento riporta, alla fine, cinque pagine di «Indice dei nomi». Non è - e non vuole essere - un testo fondamentale per comprendere Fellini, Guttuso, Saba, Bassani, Palazzeschi, Elsa Morante o Natalia Ginzburg e tanti altri. Ma per chi non si accontenta delle brevi note che accompagnano le opere di questi grandi artisti, sarà difficile farne a meno.
18/01/2006 Quotidiano di Lecce
Viaggio nel '900. Incontri con uomini straordinari, di Alessandra Pizzi
Personaggi degni delle migliori antologie, ognuno raccontato con minuziosa aneddotica, appannaggio di chi questi uomini li ha incontrati, nei salotti romani e nei mitici caffè dove per anni a Roma usavano ritrovarsi gli artisti e gli intellettuali, condividendo con loro emozioni, impressioni, e speranze. Sono queste figure, raccontate con vivacità e partecipazione, che animano Un piccolo grande Novecento, il libro di Antonio Debenedetti, pubblicato dall’editore Manni. Un libro-intervista scritto dall’autore (giornalista e scrittore, figlio del grande critico Giacomo Debenedetti) con il giovane Paolo Di Paolo.
Fellini, Flaiano, Carlo Levi, Dino Risi, Palazzeschi, Montanelli, Soldati, Moravia, Elsa Morante: l’Olimpo della letteratura italiana del XX secolo. Debenedetti, il titolo del suo libro parla di
«No, non lo è stato affatto. Piccola mi pare piuttosto la parte di quel mondo e di quella cultura che io ho conosciuto. Piccolo appare il punto di vista dell’osservatore, in questo caso il mio, rispetto a quella straordinaria fioritura artistica e culturale che è stata dell’intero ’900, e in particolare degli anni Trenta. Un periodo straordinario, in cui sono attivi D’Annunzio, Pirandello, Svevo, Ungaretti, Saba, Montale. Sono gli anni di Solaria, di Croce e di quella mente straordinaria che fu Gentile. Per non parlare dell’architettura o della critica: ricordo Persico, Venturi, Longo, Argan. L’errore che spesso commettiamo è quello di considerare l’Italia di quel periodo come una provincia culturale, invece fu un epicentro: un Paese giovane che attraverso la cultura letteraria conquistò in pochissimo tempo la sua identità».
Nei racconti del suo libro, ricorre il nome di Alberto Moravia.
«Eravamo amici e negli ultimi anni della sua vita siamo stati molto vicini. Un uomo straordinario che ha esercitato un fascino irresistibile su di me. qualcuno, di recente, ha evidenziato un mio rapporto di narratore con Moravia. Questo non so se sia vero sino in fondo, perché nella mia formazione giovanile ha contato e lo si sente palpabilmente, Gadda. Ma Moravia rappresenta per me un maestro sul piano della crescita personale. Lo chiamavo ogni mattina e ogni giorno quella telefonata mi apriva nuovi orizzonti».
Nel suo libro afferma che forse, se non avesse incontrato Ungaretti, si sarebbe salvato dal mestiere della letteratura.
«Ungaretti è stato per me una folgorazione. L’ho scoperto verso i sedici anni. Portavo a scuola i libri delle sue poesie, che leggevo di nascosto sotto il banco. Poi un giorno gli ho portato delle mie poesie e lui, dopo averle lette, mi disse: sono “strane”. E quel giudizio fu per me straordinario, perché non erano né “belle” né “brutte”, ma “strane”. Era come se lui ci fosse in quelle poesie, come se vi partecipasse. Le presentò poi al Premio Viareggio. Ungaretti mi ha illuminato».
Lei esprime un giudizio inconsueto e forse scomodo su Pasolini, tocca un problema delicato quello della critica e del suo potere esaltante o dissacrante nei riguardi di un artista…
«Riguardo a Pasolini, sono state influenti le considerazioni di un amico comune: Bertolucci. Pasolini ha scritto molto, ha prodotto molto e molto è stato pubblicato e come spesso accade in mezzo a troppa produzione diventa facile confondere ciò che senza dubbio meritava la pena di essere pubblicato con quanto invece andava scremato. In lui il personaggio travalica l’artista e come spesso accade l’artista è più piccolo dell’uomo. Molti ne parlano senza averlo letto. Bisogna essere chiari: ha scritto, per esempio, pagine di critica insuperabile, altre criticabili. Così come ci sono delle poesie di Pasolini di straordinaria bellezza, avallate anche da Contini, o alcuni film che vale la pena di vedere. Io credo che il problema di Pasolini, sia in un eccesso di produzione: in una vita piuttosto breve come la sua, aver realizzato eccellenti pagine di critica e due bei film poteva bastare, il resto andava obbiettivamente valutato, ma non è colpa sua quanto del giudizio dei posteri».
Lei ha conosciuto Carmelo Bene?
«L’ho visto una sola volta, quella che basta a restare folgorati e soggiogati dal magnetismo di un genio. Un personaggio unico, coinvolgente, capace di essere con o contro se stesso. Lo intervistai, su indicazione di Angelo Guglielmi, per una trasmissione per Raitre. Avrebbe dovuto parlarmi di Joyce, era stato lui a deciderlo, ma al momento dell’intervista non voleva saperne, sicché un operatore, che lo conosceva bene gli versò un mezzo bicchiere di coca cola corretta, credo con del gin o della wodka, e Bene si “sbloccò” e fece un monologo intrascrivibile. Carmelo Bene è un personaggio magico che ha bisogno di Carmelo Bene. Trasformava il suo maledettismo in una recita di una forza strepitosa che solo lui aveva. L’ho incontrato solo una volta, ma quell’incontro non l’ho mai dimenticato».
Nel suo libro scrive “la nostra è una generazione di orfani incapaci di essere padri”…
«Sì: Io ho scritto una dozzina di libri, ma né io né i miei compagni abbiamo aperto degli orizzonti. Nessuno di noi ha scritto Gli indifferenti o Ossi di seppia, opere basilari del Novecento. Abbiamo difeso con molto decoro la tradizione letteraria italiana. La mia è una generazione di consapevoli inconsapevoli epigoni di una grande tradizione di un grande Novecento, ma che non ha aperto né nella critica, né nella poesia, né nella narrazione nuovi orizzonti».
A volte si è detto preoccupato del cognome che porta: un padre come il suo lascia un’eredità pesante…
«Non solo. C’è un’importanza che io do alla vita di ogni uomo. Ogni uomo ha alle sue spalle un enorme capitale e lo deve saper spendere, e se ci si interroga a volte su come lo si è speso spesso si rimane turbati, si ha l’impressione di aver tradito se stessi».
Il Giornale 29/01/2006
Debenedetti e il catalogo del Novecento, di Luca Canali
Il recente libro di Antonio Debenedetti, Un piccolo grande Novecento (Manni, pagg. 174, euro 14), richiama alla mente un'altra rassegna di personaggi di spicco nella letteratura e nell'editoria del secolo scorso, I migliori anni della nostra vita di Ernesto Ferrero. L'associazione è motivata dall'eccellente qualità della scrittura dei due autori, ma anche da un difetto comune a entrambe le loro opere: l'assenza di sfondi storici, politici, ideali e «ideologici» che aiutino a meglio comprendere le personalità «narrate». Il libro di Debenedetti ha, rispetto a quello di Ferrero, il vantaggio di una maggiore apertura «topografica», nei confronti della pur feconda clausura einaudiana di Ferrero. Ma entrambi gli autori intendevano non già fare una ricognizione sistematica della produzione artistica e letteraria italiana, bensì una sintetica esposizione di essa attraverso le loro personali competenze e qualifiche professionali.
Un piccolo grande Novecento è in realtà una lunga intervista, condotta da Paolo Di Paolo, animata da una penetrante discorsività che permette al lettore di conoscere personaggi dell'ambiente letterario, soprattutto romano, che a suo tempo sono stati intervistati dall'autore stesso, divenendone spesso amici. È difficile render conto dettagliatamente dei pregi e dei limiti di questo libro. Si possono soltanto esprimere consensi, o dissensi, o perplessità su certi personaggi, sempre tuttavia rappresentati «in movimento», cioè nella dinamica del loro carattere e dei loro «stili di vita», e solo raramente «giudicati» in base alla qualità delle opere: in tal modo questo libro, per molti aspetti singolare, finisce per essere una sorta di romanzo di vite parallele, o intrecciate fra loro, ma tutte emotivamente immerse in un mondo e in una società che le accoglie in sé, ma il più delle volte le angoscia, provocando l'impulso ad esprimere, in prosa o in versi, la parte migliore - nel bene o nel male, nella rassegnazione o nella rivolta - delle singole persone che agiscono sul «palcoscenico» letterario. Perfette sono le pagine dedicate alla rigorosa didattica, e anche autodidattica, di Giorgio Bassani; e quelle che ricordano l'incredibile sincera dolcezza critica di Niccolò Gallo, finora purtroppo quasi dimenticato, che sembrava quasi scusarsi delle correzioni anche minime, che suggeriva a chiunque gli sottoponesse un testo. Drammatico il ritratto di Goffredo Parise; una grottesca e tragicomica apparizione quella di Linuccia Saba, scontrosa e scheletrica, al braccio del suo olimpico e trionfale compagno di vita, Carlo Levi. Un'affettuosa sintesi, quasi narrativa, la presentazione del militaresco e insieme umanissimo «signore del giornalismo» Vittorio Gorresio: ma perché non ricordare di lui anche la frequentazione, in un certo periodo assidua, di Palmiro Togliatti, e la contrastata assegnazione del premio Strega a questo «irregolare» della letteratura? E perché non ricordare anche Volponi, la Ortese, Sanguineti, Luzi, Raboni, figure-chiave della nostra recente letteratura? E perché non informare il lettore magari cursoriamente, sul contrasto fra sperimentalisti del gruppo '63 e sfere tradizionali del potere industrial-editoriale, che infine ebbe partita vinta fagocitando i ribelli, e anche la contesa fra arte astratta e arte figurativa, impersonata al vertice da critici e storici dell'arte quali Giulio Carlo Argan e Roberto Longhi, o l'altra, vivacissima, fra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti, sulla natura della politica come storia o come cronaca?
Nella «guardinga» caratterizzazione di Natalia Ginsburg si poteva anche ricordare la lettera di Pavese a Giulio Einaudi, nella quale si lamentava per l'insistenza della Tornimparte (allora pseudonimo «protettivo» della Ginsburg) per vedere pubblicato il suo primo testo. E l'amaro compito assegnatole, comunicare a Primo Levi il primo rifiuto editoriale del suo testo Se questo è un uomo. Del resto, è compito dello scrittore anche ricordare eventi sgradevoli: e Debenedetti lo sa bene, giacché in altre pagine ha riferito le confidenze di Anna Proclemer sulla propria intimità sessuale delusa dal marito Vitaliano Brancati, autore del Don Giovanni in Sicilia e de Il bell'Antonio.
Pienamente condivisibili invece le riserve dell'autore, fuori dal coro, sull'opera di Calvino, prediletto nei racconti, soprattutto La nuvola di smog e La giornata di uno scrutatore, e altri fino a Palomar, e sull'intera opera di Pasolini, con il suo «teatrale essere con sé e contro di sé», ma regista di quello straordinario film che è Accattone. Debenedetti è anche capace di severi giudizi «storici». Ad esempio: «Credo che a Roma sia venuta meno la società culturale, anche perché si è fatta sempre più impalpabile, remota la città della gente. Tutti siamo sempre più diffidenti, tutti senza accorgercene viviamo sempre più chiusi in piccoli clan, in piccoli gruppi senza porte e senza finestre. Ci comportiamo un po' come ospiti, come stranieri nella città dove siamo nati o dove viviamo da una vita. Nemmeno siamo più in grado di sentire quella magica aria quasi di paese che si respirava negli antichi rioni del centro storico. Niente. Siamo tutti clienti di un ideale supermercato delle idee, dei sentimenti, dei rapporti umani». Ma di ciò non siamo tutti responsabili, a causa dell'affievolirsi e venir meno del nostro impegno civile e politico?
31/12/2005 - Tuttolibri-La Stampa
Profumo di Bloomsbury nella Roma della dolce vita, di Mirella Serri
Era il settembre del 1990 e a Roma, all’angolo tra il corso d’Italia e la via Po, Federico Fellini scese dal taxi e salutò il compagno di viaggio con la promessa di rivedersi di lì a qualche giorno. Ma erano promesse da marinaio, quelle del geniale regista. Lo scrittore Antonio Debenedetti, l’amico con cui l’imprevedibile uomo di spettacolo era solito intrattenersi a seconda dei suoi estri e dei suoi umori, ben conosceva le stravaganze di Fellini: «Appuntamenti telefonici stabiliti con precisione e poi mancati, imprevisti dell’ultimo momento, persino conversazioni iniziate e subito interrotte». Così Debenedetti rievoca uno degli ultimi incontri con il regista nel libro-intervista Un piccolo grande Novecento. Conversazione con Paolo Di Paolo. Il narratore torinese in questo suggestivo dialogo, in cui non manca uno sguardo ironico e divertito, ripercorre quella che definisce l’età dei padri o dei grandi maestri. È un fervido dopoguerra ricco di personalità, di talenti, di dibattiti e di opere, la cui continuità, secondo lo scrittore, si interrompe all’incirca verso gli Anni Novanta del secolo passato con la scomparsa di due punti di riferimento artistico, Fellini e Alberto Moravia.
Roma in questo racconto è il vero epicentro della storia, il luogo in cui convergono pittori, scrittori, artisti. Debenedetti, pur essendo nato nel capoluogo piemontese, approdò nella capitale quando era molto piccolo. Il padre, Giacomo, manteneva un fortissimo legame con la sua religione, l’ebraismo, ma i suoi figli, Antonio ed Elisa, vennero invece educati al cattolicesimo materno. Ancora adolescente, Antonio, che nel romanzo Giacomino ha disegnato un suggestivo ritratto del padre –grande «critico-scrittore della nostra letteratura» secondo la bella definizione di Gianfranco Contini–, cominciò a incontrare e ad intrattenersi con i maggiori intellettuali del suo tempo. I primi approcci con Moravia, amico di famiglia, sono sconfortanti. Il sedicenne Debenedetti indossa per l’occasione il suo miglior completo, un gessato grigio a righine bianche. L’autore de Gli Indifferenti, osservandolo, commenta con il suo spirito caustico: «Gli italiani hanno il vizio di vestirsi sempre come dei gangster». Con Moravia poi si stabilirà un lungo e intenso rapporto di solidarietà e di amicizia simile a quello con Umberto Saba, che visse un periodo con Debenedetti ospite nella casa paterna.
Non sono scene di ordinaria follia ma di vita bohémienne degli Anni Cinquanta, quelle rievocate da Debenedetti: ecco, per esempio, due tra i più noti scrittori dell’epoca, Giorgio Caproni e Libero Bigiaretti, seduti allo stesso tavolino in un bar latteria a viale delle Milizie. Stretti intorno ad un’unica tazza, vi inzuppano a turno il proprio maritozzo. Tra bizzarrie e originalità da artisti spesso però affiora anche contemporaneamente l’insegnamento offerto da poeti, romanzieri e artisti: «Caproni mi ha insegnato, per esempio, la dissacrazione, la libertà di ribellarsi senza ferire nessuno, nemmeno se stessi». Estremamente vivo e brillante è il salotto Bellonci. Nelle riunioni preliminari in cui si discute su chi sarà lo scrittore dell’anno incoronato dallo Strega ci sono Goffredo Parise, la pittrice Giosetta Fioroni e Giorgio Bassani, circondato da una schiera di devoti neo scrittori a cui impartisce nozioni elementari di stile letterario e discetta sulla posizione delle virgole. C’è Arbasino, giovanissimo e «leggero come una libellula» che, con elegante fair play, volteggia da un gruppo all’altro. È un magistrale narratore che riesce a trasmettere con i suoi scritti, la sua «cultura passata al filtro di una creatività non spaventata dai dogmi accademici». A volte si aggiungono Pasolini, Pietro Citati, Enzo Siciliano. Quest’ultimo, aggredito verbalmente al ristorante da un focoso Stefano D’Arrigo cade dalla sedia, tramortito dalla imbarazzante situazione.
Nei ricordi di Debenedetti la Roma degli artisti degli Anni Cinquanta-Sessanta acquista il profumo di una stravagante Bloomsbury. Ma l’età del dandismo si esaurisce negli Anni Settanta. Nella libreria Feltrinelli, che accoglie gli esponenti del Gruppo ’63, Pedullà, Giuliani, Guglielmi, Balestrini, Arbasino e altri si riuniscono come in una consorteria segreta. In molti casi se non parlano di letteratura o di rivoluzione, giocano a flipper, scrittori contro impiegati. Di fronte al punto vendita dell’editore Giangiacomo morto sotto un traliccio a Segrate, passeggiano poliziotti in abiti borghesi che sospettano scrittori e critici di attività sovversive. L’epoca dei maestri volge verso il suo esaurimento. Con la novecentesca fin de siècle inizia l’era delle memorie che, a volte, come queste di Debenedetti, possono mutare in opere letterarie.
15/02/2006 - Il Cittadino
Debenedetti: "Vi racconto il Novecento e i suoi maestri", di Pietro Vernizzi
Una conversazione ricca di aneddoti su scrittori e artisti conosciuti personalmente e frequentati fin da bambino. È questo in sintesi Un piccolo grande Novecento di Antonio Debenedetti, narratore e critico sessantanovenne nato a Torino e residente a Roma dai suoi primissimi anni. Realizzato sotto forma di intervista, a cura del giovane narratore Paolo Di Paolo, il libro (Manni, 176 pp, 14 euro) è una serie di agili ritratti di personaggi della levatura di Alberto Moravia, Federico Fellini, Carlo Emilio Gadda e Giuseppe Ungaretti, raccontati dal punto di vista inedito di chi li ha incontrati per strada, al ristorante, a casa loro o li ha intervistati.
Lei ha affermato che il suo libro è un tentativo di «parlare con obiettività degli scrittori italiani che secondo me hanno contato di più nell’ultimo mezzo secolo». È un compito impegnativo ...
«La mia scelta non si è basata su giudizi di valore. In questo volume parlo degli scrittori che ho conosciuto e incontrato. Non è una storia della letteratura, ma una raccolta di ricordi. Non ci sono dunque criteri di esclusione: per esempio non parlo di Pirandello, che pure ammiro molto, per il semplice fatto che quando lui è morto non
ero ancora nato».
Nella loro vita privata, grandi autori quali Gadda e Ungaretti erano diversi da come si ponevano scrivendo?
«Quella tra persona e artista è una distinzione che non esiste. Quando la mattina mi faccio la barba, guardandomi allo specchio, non vedo due figure, l’uomo e lo scrittore, ma una sola, la mia. E quello che vale per me vale per tutti gli autori».
Nel libro scrive che con Moravia e Fellini finisce l’epoca dei grandi maestri. Non pensa che ciò sia legato al fatto che oggi si fa più fatica a riconoscere qualcun altro come autorevole?
«No, credo che sia una cosa oggettiva, testimoniata dalle loro opere. Nel mondo letterario o cinematografico attuale non vedo altre persone con una statura paragonabile alla loro. Verranno altri maestri, ma adesso ci sono solo bravi scrittori o registi».
Dove sta la differenza?
«Il maestro è colui che interpreta i sogni, le speranze e i desideri di un’epoca. Nessuno oggi per esempio è in grado di raccontare la città di Roma come hanno fatto Moravia nei suoi libri o Fellini nei suoi film».
Quali sono stati i suoi maestri?
«Tutta la giovinezza di uno scrittore si svolge nella ricerca di un maestro. Io devo molto soprattutto a Gadda e a Emilio Cecchi».
Anche Giorgio Caproni, se non sbaglio, è stato suo maestro...
«Sì, ho avuto la fortuna di incontrarlo come insegnante quando frequentavo le elementari. Lo ricordo come un docente fantasioso, che usava metodi originali e pieni d’inventiva, stimolando al massimo la creatività dei suoi alunni».
Alberto Arbasino, scrittore e suo grande amico, ha composto un romanzo dal titolo La bella di Lodi. Un omaggio alle bellezze lodigiane?
«Questo non lo so, nell’ispirazione che dà origine a un’opera letteraria c’è sempre qualcosa di misterioso. Quello che posso dire è che Arbasino è uno degli autori del secondo Novecento che apprezzo di più. Fratelli d’Italia, tra gli altri, è un romanzo epocale».
Perché ha deciso di realizzare questo libro sotto forma di conversazione con Di Paolo?
«È stato un modo per concentrare l’attenzione sulle figure di cui parlo invece che su me stesso, rimanendo fedele ai personaggi che avevo incontrato. Di Paolo mi ha aiutato a mettere ordine fra i miei ricordi, permettendomi di presentarli attraverso un’agile narrazione».
01/03/2006 - L'Indice
Un’epoca addosso, di Massimo Onofri
C’è qualcosa di commovente in questo libro-intervista di Antonio Debenedetti. E sta nella smentita che si deve dare a una risposta che Antonio fornisce, con brusca perentorietà, a Paolo Di Paolo, quando lo interroga sull’esistenza di una società letteraria nell’Italia di oggi: “La risposta, amico mio, è no!”. È difficile, infatti, non avvertire una consentaneità di sentimenti, un generoso commercio di idee, tra lo scrittore noto, e dal cognome numinoso, quasi alle soglie dei suoi settant’anni, e il poco più che ventenne interlocutore. È difficile non avvertirla, questa complicità, colta e adulta com’è: quando invece tendiamo a pensare che un abisso si sia scavato tra gli scrittori nati prima della seconda guerra, come Debenedetti, e le ultime generazioni euforicamente televisive, divise, magari, tra Baricco e Jovanotti. Tanto più se è proprio il freschissimo Di Paolo, eppure già letterato sino alle midolla, ad affidarci parole così: “Correndo a Termini dalla casa di Antonio correvo con l’allegria stupefatta di incontri inattesi e tanto più preziosi; e ogni volta con un’epoca addosso attraversata, con parecchie vite aggiunte alla piccolissima mia, e voci nuove, ascoltate tutte in quella del mio interlocutore casuale e adesso familiare –come il bel ritratto paterno firmato Casorati appeso in salotto, come le pile di libri sui divani che ritrovano e ritrovo sempre più alte, torri di carta e parole pericolosamente in bilico”.
Ecco, così ci sentiamo anche noi, pagina dopo pagina: “con un’epoca addosso”, mentre tante vite memorabili si allineano, aggiungendosi alla nostra. Ma che libro è questo di Debenedetti? Impossibile non leggerlo anche come un prolungamento dell’implacabile e delizioso Giacomino (1994), nonostante Antonio si neghi, con Di Paolo, a proseguire il discorso: “Aggiungo anche di aver scritto con Giacomino un libro generoso, appassionato e sincero. Un libro sofferto, drammatico, l’unico che potesse scrivere un figlio senza rinnegare il suo edipo, l’importanza del suo edipo conseguente proprio all’estrema importanza del rapporto avuto con il padre. Non mi chieda altro”. Impossibile, dicevo: perché Giacomo resta presente, e incombente, pur essendo sostanzialmente assente, mentre Antonio s’incammina dentro il romanzo della sua formazione, nel mondo che è lo stesso del padre, e che il padre signoreggia con la sua autorevolezza già leggendaria. Però, per diventare ciò che era, Antonio, avviato prestissimo alle lettere –fondamentale l’esperienza di “Il Punto”–, si troverà a scegliere come maestri Moravia e Fellini, non esimendosi poi da un giudizio, su se stesso e i suoi coetanei: “Con la fine di Moravia e di Fellini, sul piano culturale e non solo, anche Roma avrebbe cominciato a morire. Le mie, le nostre sono generazioni di orfani incapaci di diventare padri”.
Ha ragione Antonio: se non altro perché la condizione d’orfanezza vale come una delle chiavi per penetrare nella sua intera opera di narratore, mentre lo spazio che corre tra Moravia e Fellini ha potuto davvero fungere da camera iperbalica di un’immaginazione che conserva tutti i lividi della realtà, tutte le costrizioni. Non vorrei indugiare. Perché questo libro di formazione si può anche leggere come uno dei romanzi –e tra i più folti– ove s’accampa uno dei corpi della nostra letteratura secondonovecentesca. Sono pochi coloro che mancano all’appello. Oltre Moravia e Fellini, ecco Caproni, Ungaretti, Brancati, Conti, Morante, Penna, Pasolini, Bertolucci, Bassani, Gallo. Soldati, Ginzburg, Carlo Levi, Manganelli, Gadda, Palazzeschi, Manzini, De Libero, Cardarelli, Vigolo, Flaiano, Savinio, D’Arrigo, Parise, Pampaloni, Baldacci, Garboli. Per stare solo a chi non c’è più.
Non vorrei tacere ora del piacere di chi trova dispiegata al meglio, e in miracolosa velocità, l’arte del ritratto: quella di chi sa ricambiare la sorte per avergli riservato così straordinari incontri. Ma l’impagabile del libro sta nel tono: di un’alta e leggerissima conversazione, puntualissima pur nei modi di un’apparente svagatezza. Un tono, e una conversazione, che sembrano il precipitato, e la condensazione malinconica, di quelle che avvenivano, in un’altra Italia, e dentro ben più ridenti speranze, nei salotti di Alba de Céspedes e Maria Bellonci: laddove salotto, però, faceva rima solo con civiltà. Antonio parla piacevolmente: rilutta all’aneddoto, ma non al dettaglio. Perché il ritratto non gli si disgiunge mai da un’interpretazione critica. Si sa: della critica il dettaglio resta il fondamento. Qualche esempio? Toti Scialoja e il suo passato di pittore figurativo: “Credeva troppo in quello che faceva per credere anche in quello che aveva fatto”. Guttuso: “Era naturalmente materialista così come altri sono mistici. Aveva l’hic et nunc, il qui e l’ora della vita, già nell’espressione del volto”. Difficile, in così poco, dire meglio.
01/03/2006 - Letture
Il fattore umano dei nostri letterati, di Antonio Spadaro
Sui grandi autori del Novecento non si finirà mai di scrivere. Ed è bene che sia così. Ma i grandi autori non sono icone immobili o scatti fotografici. Sono persone che hanno costruito i loro itinerari all’interno di esistenze complesse, fitti intrecci di relazioni: solo chi vi è stato all’interno può raccontarle in maniera familiare, senza il filtro necessario dei biografi, ma con la passione e l’intelligenza unica del rapporto personale.
In Un piccolo grande Novecento Antonio Debenedetti, robusto narratore e penetrante occhio critico del panorama letterario italiano, tesse i fili dei suoi ricordi in una conversazione che offre spazio adeguato per “raccontare” Moravia, Caproni, Ungaretti, Pasolini, Bassani e molti altri artisti, il cui numero ha reso necessario un esteso indice dei nomi. Questo è il pregio fondamentale del volume: ci racconta la letteratura come una cosa familiare, ci rende gli autori vicini, ci fa entrare nelle pieghe dell’ispirazione e delle motivazioni, oltre che in quelle della vita ordinaria e dei sentimenti profondi.
Ovviamente a raccontare è una persona viva, col suo sguardo particolare, che però si è formato nella frequentazione personale, prima ancora che nella lettura; comunque non semplicemente nelle carte. A volte, questo occhio è testimone dell’esperienza che alcuni scrittori hanno avuto di altri scrittori, e così ci consegna un giudizio intriso di rapporti complessi, di letture intrecciate e di amicizie umane oltre che letterarie.
«Vita e letteratura», verrebbe da commentare citando Bo: «Credo anch’io, come Carlo Bo, che il problema centrale sia semmai il fattore umano», scrive Debenedetti. Dunque Un piccolo grande Novecento è un saggio critico in forma di diario e di racconto, una testimonianza vivacissima da non perdere. Il lettore, se già non ne è convinto, comprenderà come la letteratura sia non una idea, ma una vera e coinvolgente esperienza.
Piccolo grande Novecento. Non è stato poi così piccolo…