Antonio Debenedetti, Un piccolo grande Novecento

02-12-2005

I Debenedetti. E la letteratura del ’900 attraversò una casa di Roma, di Paolo Fallai
 
Nella casa di Giacomo Debenedetti è passato mezzo Novecento letterario italiano. L’altra metà veniva studiata. Agli stranieri toccava un trattamento più informale: il piccolo Antonio - destinato a una lunga carriera di «recensore di complemento» - appena vide Neruda lo prese a ciabattate.
D’altronde provateci voi a crescere facendovi correggere i compiti da Giorgio Caproni, a fare chiasso - come ogni bambino deve fare - mentre tuo padre parla con Moravia o con Alberto Savinio, o a essere impertinenti di fronte ai tanti cappotti destinati a placare l’implacabile freddo di Cardarelli. Antonio Debenedetti ha lo straordinario pregio di non essersi fatto schiacciare da così tanta presenza e di aver messo questa irripetibile stagione al servizio della sua vita di scrittore e giornalista. Poco più di dieci anni fa, con Giacomino, il libro dedicato al padre, Debenedetti ha idealmente saldato questo debito di formazione. Ma è forse in quattro decenni di giornalismo culturale - sulle pagine del Corriere della Sera ma anche in tanti «speciali» televisivi - che Antonio ha messo questa conoscenza a frutto di una galleria di ritratti ripresi da un angolo di visione del tutto originale.
Oggi questa lunga stagione si ritrova nelle pagine di una intervista concessa a Paolo Di Paolo e raccolta in volume dall’editore Manni sotto il titolo: Un piccolo grande Novecento. È un libro che affronta con grande leggerezza un viaggio tutt’altro che semplice tra relazioni affettive, complicità intellettuali, incanti e disillusioni. Si può leggere come una favola e tenerlo come preziosa fonte di consultazione.
Un viaggio che comincia con i primi ricordi di questo testimone privilegiato, nella Roma di fine anni Trenta: una città «dotta, creativa, vivace, ma anche ricca di contraddizioni e incapace di reagire al fascismo». Moravia accompagna per un lungo tratto queste pagine, presenza costante nell’infanzia e nell’adolescenza di Antonio Debenedetti: ma solo il giornalista ormai adulto riuscirà a costruire un rapporto incontrando a più riprese lo scrittore affermato. «Moravia parlava di Roma, almeno con me - racconta Antonio Debenedetti - come si parla di una persona di famiglia: per disappunto o per amore. La freddezza che a volte ostentava era una recita».
Un’ampia parte del libro è dedicata al cinema («Abbiamo imparato a raccontare i sentimenti, a strutturare le storie, a dividere ciò che diverte da ciò che è superfluo») e alla poesia. A cominciare dalla presenza fondamentale di Giorgio Caproni («Mi ha insegnato la dissacrazione, la libertà di ribellarsi senza ferire nessuno»). Alla pittura, pure così presente nella formazione di Antonio anche grazie all’insegnamento della madre, Renata Orengo. Con una particolare predilezione per la dualità di straordinari personaggi come Savinio, «un grande pittore che scrive i suoi quadri» o «Toti poeta, Scialoja pittore», testimoni viventi di un inscindibile talento.
Un piccolo grande Novecento riporta, alla fine, cinque pagine di «Indice dei nomi». Non è - e non vuole essere - un testo fondamentale per comprendere Fellini, Guttuso, Saba, Bassani, Palazzeschi, Elsa Morante o Natalia Ginzburg e tanti altri. Ma per chi non si accontenta delle brevi note che accompagnano le opere di questi grandi artisti, sarà difficile farne a meno.


31/12/2005 - Tuttolibri-La Stampa
Profumo di Bloomsbury nella Roma della dolce vita, di Mirella Serri


Era il settembre del 1990 e a Roma, all’angolo tra il corso d’Italia e la via Po, Federico Fellini scese dal taxi e salutò il compagno di viaggio con la promessa di rivedersi di lì a qualche giorno. Ma erano promesse da marinaio, quelle del geniale regista. Lo scrittore Antonio Debenedetti, l’amico con cui l’imprevedibile uomo di spettacolo era solito intrattenersi a seconda dei suoi estri e dei suoi umori, ben conosceva le stravaganze di Fellini: «Appuntamenti telefonici stabiliti con precisione e poi mancati, imprevisti dell’ultimo momento, persino conversazioni iniziate e subito interrotte». Così Debenedetti rievoca uno degli ultimi incontri con il regista nel libro-intervista Un piccolo grande Novecento. Conversazione con Paolo Di Paolo. Il narratore torinese in questo suggestivo dialogo, in cui non manca uno sguardo ironico e divertito, ripercorre quella che definisce l’età dei padri o dei grandi maestri. È un fervido dopoguerra ricco di personalità, di talenti, di dibattiti e di opere, la cui continuità, secondo lo scrittore, si interrompe all’incirca verso gli Anni Novanta del secolo passato con la scomparsa di due punti di riferimento artistico, Fellini e Alberto Moravia.
Roma in questo racconto è il vero epicentro della storia, il luogo in cui convergono pittori, scrittori, artisti. Debenedetti, pur essendo nato nel capoluogo piemontese, approdò nella capitale quando era molto piccolo. Il padre, Giacomo, manteneva un fortissimo legame con la sua religione, l’ebraismo, ma i suoi figli, Antonio ed Elisa, vennero invece educati al cattolicesimo materno. Ancora adolescente, Antonio, che nel romanzo Giacomino ha disegnato un suggestivo ritratto del padre –grande «critico-scrittore della nostra letteratura» secondo la bella definizione di Gianfranco Contini–, cominciò a incontrare e ad intrattenersi con i maggiori intellettuali del suo tempo. I primi approcci con Moravia, amico di famiglia, sono sconfortanti. Il sedicenne Debenedetti indossa per l’occasione il suo miglior completo, un gessato grigio a righine bianche. L’autore de Gli Indifferenti, osservandolo, commenta con il suo spirito caustico: «Gli italiani hanno il vizio di vestirsi sempre come dei gangster». Con Moravia poi si stabilirà un lungo e intenso rapporto di solidarietà e di amicizia simile a quello con Umberto Saba, che visse un periodo con Debenedetti ospite nella casa paterna.
Non sono scene di ordinaria follia ma di vita bohémienne degli Anni Cinquanta, quelle rievocate da Debenedetti: ecco, per esempio, due tra i più noti scrittori dell’epoca, Giorgio Caproni e Libero Bigiaretti, seduti allo stesso tavolino in un bar latteria a viale delle Milizie. Stretti intorno ad un’unica tazza, vi inzuppano a turno il proprio maritozzo. Tra bizzarrie e originalità da artisti spesso però affiora anche contemporaneamente l’insegnamento offerto da poeti, romanzieri e artisti: «Caproni mi ha insegnato, per esempio, la dissacrazione, la libertà di ribellarsi senza ferire nessuno, nemmeno se stessi». Estremamente vivo e brillante è il salotto Bellonci. Nelle riunioni preliminari in cui si discute su chi sarà lo scrittore dell’anno incoronato dallo Strega ci sono Goffredo Parise, la pittrice Giosetta Fioroni e Giorgio Bassani, circondato da una schiera di devoti neo scrittori a cui impartisce nozioni elementari di stile letterario e discetta sulla posizione delle virgole. C’è Arbasino, giovanissimo e «leggero come una libellula» che, con elegante fair play, volteggia da un gruppo all’altro. È un magistrale narratore che riesce a trasmettere con i suoi scritti, la sua «cultura passata al filtro di una creatività non spaventata dai dogmi accademici». A volte si aggiungono Pasolini, Pietro Citati, Enzo Siciliano. Quest’ultimo, aggredito verbalmente al ristorante da un focoso Stefano D’Arrigo cade dalla sedia, tramortito dalla imbarazzante situazione.
Nei ricordi di Debenedetti la Roma degli artisti degli Anni Cinquanta-Sessanta acquista il profumo di una stravagante Bloomsbury. Ma l’età del dandismo si esaurisce negli Anni Settanta. Nella libreria Feltrinelli, che accoglie gli esponenti del Gruppo ’63, Pedullà, Giuliani, Guglielmi, Balestrini, Arbasino e altri si riuniscono come in una consorteria segreta. In molti casi se non parlano di letteratura o di rivoluzione, giocano a flipper, scrittori contro impiegati. Di fronte al punto vendita dell’editore Giangiacomo morto sotto un traliccio a Segrate, passeggiano poliziotti in abiti borghesi che sospettano scrittori e critici di attività sovversive. L’epoca dei maestri volge verso il suo esaurimento. Con la novecentesca fin de siècle inizia l’era delle memorie che, a volte, come queste di Debenedetti, possono mutare in opere letterarie.