Antonio Errico, Finibusterrae

01-09-2007

Tra mare e terra, luce e silenzi, di Cinzia Dilauro

La domanda ricorre frequente: allora, dov’è Finibusterrae? Quello che per gli altri è un luogo geograficamente riconoscibile e circoscritto, in “Viaggio a Finibusterrae. Il Salento fra passioni e confini” di Antonio Errico è un luogo che ha perso le sue connotazioni antropologiche, storiche ed è diventato fantastico, immaginario, letterario. “Allora Finibusterrae è un oltre, un altrove”, oppure “Finibusterrae è una nostalgia che la scrittura cerca di alleviare” o ancora, semplicemente, “Finibusterrae non esiste. È un luogo del pensiero” cosicché “chi va a Finibusterrae non potrà arrivarci mai. Si può andare solo verso Finibusterrae: continuamente, all’infinito verso questo luogo, verso questa dominazione che contiene un orizzonte vago, la contraddizione poetica dell’illimitatezza nella limitazione del significato”.
Il viaggio ha preso il posto della destinazione, non è la prima volta tra le pagine di un libro, ma in questo caso è visceralmente soggettivo, la meta è irrimediabilmente dentro di noi e per arrivarci occorre attraversare gli umori dei luoghi che ci vedono passare, ognuno di essi, a suo modo, rivendica una parte della nostra anima.
E allora Finibusterrae può essere Otranto, Castro, Santa Cesarea, Leuca, Lecce, Gallipoi… Errico riesce a fare forma e percezione netta di quelle che fino a quel momento sono state sensazioni fuggevoli, impressioni che ci hanno sfiorato la pelle passeggiando tra le vie che si “avvoltolano” di Castro. È la capacità, che hanno solo alcuni scrittori di far nascere uno sbilenco sorriso sul volto di chi legge e pensare “sì. è proprio così”. È la magia della lettura (e il segreto di chi sa scrivere), di quel tipo in cui a volte ci si imbatte sentendosi pervasi da una famelica felicità che pur di prolungare si è disposti a centellinare. Una lettura lenta anche perché (come nelle ultime opere di Errico) densa è la materia, ogni periodo richiede e richiama un’immagine o, a noi che questa terra la calpestiamo da quando siamo nati, una dolce evocazione.
La scrittura di Errico esige tutto questo dalla mente del lettore, disposto anche a tornare indietro per figurarsi meglio l’immagine che le parole sono state in grado di creare, sottraendo i pensieri agli spazi circoscritti di chi da troppo tempo non va a guardare il suo mare, dove la vaghezza delle sensazioni si espande fino a diventare certezza: finalmente quella luce strabiliante ha una sorgente, Castro; quello spesso silenzio una fonte, Otranto; la leggenda e la malinconia una traccia, Santa Cesarea.
Una fascinazione continua, tra il vuoto e il pieno, il mare e la terra, la luce e il silenzio, Errico ci ha abituati a questo ritmo fatto di estremi e contrasti così come quando ci condusse in quel fitto bosco di tumulti interiori de “L’ultima caccia di Federico Re”.
Una evocazione continua (perché il ricordo è imperioso e schiacciante), ma quasi velata dal rimorso dell’arrovellarsi in ciò che fu, nel racconto, nella memoria incessante e ciclica, in queste storie e leggende che hanno nel tempo dato forma ai luoghi, pervadendone le pietre, diventando tangibili ma, sempre, inafferrabili, misteriosi affinché si continui ad avere il bisogno di conoscerli, di sentirseli raccontare, ancora e ancora: “La Torre del Serpe si consegna allo sguardo così, sgretolata, per impedire che la sua funzione sia decifrata compiutamente. Restando nello spazio dell’incerto, conservando alcune condizioni di mistero, può continuare a costituire un’attrazione di quel desiderio di conoscenza, di svelamento. Forse faro d’Hydruntum, forse d’avvistamento, forse l’una cosa e l’altra. Ma certo sussulto nei naviganti di un desiderio di terraferma, di porto, di casa, di bordello”.
Forse è vero che continuiamo a leggere sempre lo stesso libro, ma la Lecce che Errico ci descrive è vera e appassionante, crudele e stucchevolmente bella come l’odore di quei frutti troppo maturi di Macondo, nel quali ci si sente cullati da un’indolenza fatta di bellezza che in certe ore sembra colare via dalle facciate di chiese e palazzi, perché “bugiarda” è la pietra di cui sono fatti. Ci si può sentire prigionieri di questa pietra, ma anche questo è un inganno di prigionia perché basta toccarla per dissolvere quelle chimeriche forme che hanno soggiogato i poeti così come l’autore sembra esserlo a volte da “quell’incantesimo bodiniano” dal quale però è in grado di uscire con la stessa leggerezza e, seppur affettuoso, disincanto: “Come la città dei provinciali che arrivavano con la corriera per frequentare aule di università e redazioni di giornali, che l’hanno odiata con l’ebbrezza di Edoardo De Candia, adorata con il fatalismo ironico di Rina Durante, osservata con lo sguardo perforante dei versi di Vittorio Pagani. Lecce è luogo che continuamente si disloca. Città fantastica. Proiezione della memoria. Altrove dell’affetto. Anche Lecce è Finibusterrae. Perché da Lecce non si passa casualmente. Lecce è l’intenzionale meta di un viaggio, un luogo dove si arriva o da cui si parte, necessariamente. Non è un passaggio, uno scambio di binario. È inizio o conclusione di un percorso. I treni che vanno lontano partono da Lecce. Quelli che arrivano da lontano si fermano a Lecce. È la condizione del capolinea, dell’ultima fermata o della partenza, è la stazione che determina la differenza nel tempo e nella situazione del viaggio”.
Si odono anche le voci dei poeti salentini tra queste pagine: Bodini, Pagano, Fiore, Verri, Comi e anche Maria Corti, Rina Durante, Claudia Ruggeri e tanti altri che Errico non dimentica mai e, chilometro dopo chilometro, non si fa in tempo ad udire gli zoccoli del cavallo che condusse Cesarea fino alla rupe che già incombe il silenzio di Otranto, ed è come se si fosse incapaci di uscire dal vortice di una magia e di guardare oltre, ma d’altronde, questa è Finibusterrae, qui finisce il viaggio. O comincia?