Nobilissimo Signore dell'imbarattabile, di Ilaria Seclì
La direzione è luogo d’elezione, santa Maria del Paradiso, appena dentro le mura, a meno di 50 passi dalla porta elegante, Signora Porta Rudiae. Una volta mi domandarono com’è il Fondo Verri, se è grande. Ho avuto difficoltà a rispondere. Posto che sfugge alle misure, a sbrigative descrizioni, piccolo/grande, illuminato/buio. È culla, amnio, grembo. Piccole lucine per illuminare opere di pittori e fotografi, faro centrale in alto per chi abbraccia gli altri dal centro della sala. Bianco greco dello stucco e legno scuro del parquet, timbri di vecchi inchiostri, nomi di chi, qui, si è cucite le carni, Quotidiano dei Poeti. È culla del sonno febbrile e giocondo, inquieto e ansioso, mite e consapevole di chi ci è passato, a battesimo, e ci passa. Vivi e morti, stanziali e nomadi. I passi verso il Fondo Verri, sera di buono e chiaro giugno. Ciò che viene per primo determina il resto, da lì molte cose diventano, si fanno, s’ingrandiscono. Non c’ è volontà né coscienza. Il dopo, il poi, mostra la prima impronta, la traccia. Il resto si srotola, viene, necessario. Nessuno dimentica.
L’esiliato non ha nome, Antonio Errico lo omette dall’inizio alla fine del romanzo, avvolto in un telo scuro come quello che copre la croce di Cristo, qui, il giorno del venerdì santo, come quello che copre gli specchi nella casa dei morti finché la veglia dura, come quello che copre l’impasto da far lievitare e la pasta fresca che giace una notte, domestico tabernacolo, protetta dallo scirocco o da qualche insidia notturna di fantastici deserti. Nell’omissione di lettere e vocali che definiscono e collocano onomasticamente un individuo nella storia, in un vissuto, si nasconde tutto il tormento e l’incanto dell’uomo, non dell’uomo qualunque o dell’uomo di successo. Dell’Uomo, l’esiliato par excellence, il Naufrago. “Si nasce soli e si muore soli, che è già un eccesso di compagnia”, diceva C. B.
Il nome potrebbe essere eccesso di compagnia, per questo esiliato dei Pazzi, capitombolato da Firenze nella sperduta terra tra i due mari. Scrive lettere al suo signore Lorenzo dei Medici, dice di accecamenti di luce, di una terra ammorbata da un’ineffabile malia.
L’esilio si fa dolce perché é stato accolto e non solo dagli uomini. È già nel suo sangue, scorre come scorre la nostalgia di casa e dei suoi cari, la luce che schiaccia, stordisce, consola, ammalia, porta a spalla, straluna esseri e luoghi di questo sud del sud dei santi. Istante Immobile che dilata e ogni fatto ed esistenza sfarina nel per sempre. Tutto si fa principio e fine, il resto è incagliato nei ghirigori barocchi, nelle sfrenate danze dionisiache, nelle chiese che danno vertigine, nel limitare di un ineffabile mistero, soglia, bilico, abisso. Non c’è trama nei fatti dell’origine, quelli a cui Dio ha negato un procedere, certi fatti dell’Inizio non si assoggettano alle contaminazioni della storia. Qui Storia è divinità invisa, l’ultima. Non ha vita, inesorabilmente schiacciata da un cielo e da una luce che non ammettono intrusi, né di essere crepati da faccendieri, banchieri e imprenditori a braccetto, da cortigiane ambizioni, cose che si gonfiano e muoiono, nascono e si spengono in piccolezze di punto, di sbadiglio, ferale niente. E sì che il romanzo di Errico nasce da un fatto storico, ma quello che l’esiliato vive nei giorni del confino, sul filo che tiene la terra all’abisso del mare, avanza ragioni esistenziali, eterne.
La storia, a quel punto è parcheggiata a latere, così come piccolissima e insulsa entità diventa il potere, la smania di, l’accumulo, l’affermazione di sé. Chissà cosa scriverebbe oggi, di questa terra, l’esiliato del ’400 al suo signore Lorenzo dei Medici. Direbbe la stessa malia e bellezza, luce, cielo e mare immutati. Direbbe poi che saranno perduti e destinati a infelice sorte i seguaci di Mammona, quelli che all’ingresso del tempio, barattano il sacro col profano, quelli che urlano mammaliturchi, per poi consegnare ai turchi le chiavi della città.
(Grazie ad Antonio Errico, superbo cantore delle cose dell’uomo e del mistero di questa terra. Ne possiede le chiavi, innegoziabili, imbarattabili).
“Nobilissimo Signore, se venissi da queste parti, qui, nell’oltrepassamento che la terra fa del mare e il mare della terra, qui, ad una certa ora che ormai non è più giorno e non è ancora sera, valanghe d’ombra sommergono l’esistenza, qui, dove si fa concreta l’esperienza del tempo che ci stringe e ci sospinge verso l’assoluto, forse, o forse verso l’inesistente, se venissi da queste parti comprenderesti l’insensatezza di ogni fatuo progetto che ci avvince, e ci mortifica. Se venissi da queste parti, se vedessi i riflessi che divampano al tramonto, certe furie irrefrenabili degli uomini e poi certe spossate pacatezze, la ferocia di un duello coi coltelli per una sola parola incauta, per un gesto imprudente, se vedessi come l’onore del sangue annulla tutte le differenze tra miseria e ricchezza e come il male e il bene sono decisi soltanto da un istinto di sopravvivenza, se vedessi che all’improvviso tutto quello che si pensa sommerso diventa evidente come la bassa marea che mostra il fondale che l’alta nascondeva, ecco, se vedessi questo capiresti il senso del nostro precario essere, della nostra intrinseca debolezza. Nobilissimo Signore, qui l’abbaglio confonde i punti cardinali. Acerbità e maturità non hanno differenza. Le distanze si cancellano. Le forme si adulterano. I contrari si congiungono. S’invischia il vero e il falso, la stoltezza e la sapienza, il prossimo e il remoto, la gemma col marciume, il principio con la fine, incenso di purezza e miasma di corruzione. Qui, a volte, è come se tutta l’energia della natura si dissipasse, se s’inibisse la luce, il vento, il flutto, e il tempo rimanesse schiacciato in una morsa, per poi riprendere prodigiosamente movimento, per farsi brulichio, scorrimento, esplosione, per farsi vortice, filamento, rigoglio, stemperanza d’autunno, veemenza di primavera, vespro di marzo, tonfo di gabbiano, baratro di faglie, aroma di mirtillo, brillare attonito, zenit perfetto. Nobilissimo Signore, non riesco a raccontarti questo luogo. Questo luogo divora ogni parola, ogni racconto”. [...]
“Nobilissimo Signore, se venissi da queste parti, in qualsiasi tempo dell’anno, in qualsiasi ora del giorno, se arrivassi qui da terra o da mare, se vedessi la miseria e lo splendore mischiati e confusi, se ascoltassi le nenie e i canti del lutto, se comprendessi la rassegnazione davanti alla vita e davanti alla morte, se ti rendessi conto com’è che la sorte è decisa dal cielo in un attimo soltanto, da un assalto di grandine, da una furia di vento, se conoscessi la provvisorietà dell’esistenza di questi uomini muti, di queste donne stravolte di pazienza, tu non avresti più nessuna tentazione di gloria e di potere”.