Il teatro nella neve, di Pierluigi Mele
Borges si allenò, non fece altro in vita. A contenere cioè l’universo in una scatola di fiammiferi. La sua lente chinata a vedere oltre, nel labirinto, nella biblioteca di ogni possibile sapienza, d’ogni accidente, parola, conoscenza.
Oltre il tutto già accaduto, c’è il tutto da venire per darne incanto più che conto, trasfigurare, sfinire per delirio, gioco, rimescolamento. Per contenere ogni memoria del passato e ogni certezza che sia stata, insieme all’incertezza del tempo che sarà, che ci spetta o non ci (ri)guarda. Per contenere tutto, candore, slanci, la voglia, il male, le rinunce, l’aver amato o solo vissuto che talvolta è il suo contrario.
Consegnarsi al dopo, di là, nell’intrico del bosco dell’ultima caccia è la scatola di fiammiferi di Federico Re. Di là c’è l’ombra d’un uomo che s’allunga, si contrae, sguscia, striscia, scampa, insegue, caccia. Nel gioco-delirio di preda e cacciatore, nell’incerto continuo asfissiante calpestio di ricordi, nei passi confusi d’una presenza sospesa soffiata intrigante, in tutto questo c’è Federico. Così come accade a scuola: la parola, il numero, la chiave del gioco è appena suggerita, impastata alla tensione, e tu non puoi che riferirla per come t’arriva, spesso fraintesa, alterata. Oppure immaginata che qualcuno, davvero, te l’abbia suggerita.
Federico è l’attesa. Nel fervore di memorie, nomi, corpi di donna, conquiste, città, di perdite private e tradimenti, in questo ricacciare dall’ammasso del passato ogni ansia, ogni fantasma dell’impero, ogni saggezza di lettura, è nudo Federico nell’attesa. Re d’un rettangolo di buio. Dove le sentinelle sono a guardia di un vuoto senza inizio mentre fine. Il regno di buio su cui ora Federico sa d’aver sempre governato.
L’imminenza del congedo rischiara dal nuvolo, dona la certezza del passato; la luce su quel che è stato segna il volto di chi non ha bisogno di vedere. La luce, nel buio assoluto dello sguardo, scalda, svela e tanto basta. Proprio ora, a partita ormai conclusa, a reti inviolate. Nonostante il furore, la forza delle armi, i castelli, la corona, i libri, i corpi amati e sconosciuti, Palermo, «a terra sicca, l’erba tennira a ventu», è proprio questa luce immaginata “senza gradi” a valere quanto e più della fortuna e degli onori del passato. La luce su un destino a reti inviolate, che non protesta, non grida al complotto né si spiega all’infortunio. Federico accetta, tutto. Contiene. Il suo delirio orfano di figli e figuranti, diviso tra preda e cacciatore, là nel bosco dell’ultima caccia ancora da finire, è il racconto d’una solitudine tessuta con bianca leggerezza, senza peso. Se il racconto ha un colore, bianco è il racconto di Federico. Non so se per una pace, una quiete dell’età, per la dolcezza di chi ha visto il falco temere il volo la sua fine come la più indifesa rondine nel cielo. La dolcezza di chi sa che il potere è solo fumo, gratitudine magari, comunque vanitas. La dolcezza dei seppelliti di Dino Campana.
Federico, al limite del tempo, sente il cielo dentro ogni suo respiro, senza vederlo. Federico-Borges è cieco. Federico contiene. Il buio degli occhi comprende le frontiere, i dirupi, le maree, le derive della memoria. Proprio quando ricordare equivale ad un errore, un acciacco, nulla più. Il Re riconosce la preda perché sa contenerla. In silenzio l’attende e le augura «che la vita ti sia lieve». È questa la preghiera, il solo desiderio di Federico dentro il bosco. Sa che preda e cacciatore non possono tradirsi perché fiati d’una sola intimità. Dice Borges: «Ignoro quale volto fissi il mio / quando guardo la faccia dello specchio, / non so chi sia là il vecchio che mi spia / con silenziosa e già caduta ira. / Lento nell’ombra, con la mano tento / i miei tratti invisibili. Un bagliore / a un tratto: ho scoperto forse i tuoi capelli, / già di cenere o forse ancora d’oro. / Mi ripeto che ho perso solamente / la vana superficie delle cose / …, / ma io penso alle lettere e alle rose, / penso che se mi vedessi un istante / saprei chi abita con me la sera».
Nel buio degli occhi soltanto la neve carezza. La neve dell’ultima caccia di Federico Re presto coprirà ogni traccia, sogno, finzione, ogni presenza, la sorte e la gloria. La neve è il vestito che scopre il nostro candore e stupore per ciò che arriva, non bussa e non turba, che è lieve, se arriva. Lieve verrà la preda come la neve, con passo di cielo. Nel respiro che Federico ha dentro di sé del cielo, senza vederlo. E la neve non sarà quella dei giochi, dell’attesa dal bancone e dai banchi di scuola. Cadrà la neve dell’inospitabilità, senza clamore, che monta, cresce, serra l’uscio di casa e rintana. La neve del cacciatore e la preda, un’unica smorfia di cielo «sognata, adorata, ogni istante perduta, ogni istante cercata». Un canto sullo spartito di neve.
Contenere. Stringersi in una stagione sola che è congedo e ritorno, storia e baro, dolcezza e stordimento, delirio e lievità. Ritorno all’origine, alla voce di un racconto che annienta la corona, le date, i gradi della corte, le strategie, i tornaconti dell’impero, le sue gesta e miserie.
Ritorno al racconto, al riconoscimento, al nome. «Tu sei un nome che s’anima. Nient’altro che questo. Un nome, parola che mi sfugge e che inseguo».
Federico è voce del narrare, uomo scomparso dalle trame di un’epica, sottratto alle cronache d’un manuale. È l’uomo che resta oltre il regale comandare, gli azzardi, l’ingegno, il trono, le conquiste. Di lui resta il fiato, il sentiero da risalire, il resoconto da stilare su quel buio dell’impero che è tutto dentro. Resta la solitudine del potere, la vana fortuna delle armi, della baldanza, dell’ordine civile. Perché se è vero che nessun sistema mette fine al caos dell’esistenza, se ogni dottrina di governo e di regname è pura arte di comando, è altrettanto vero che il potere è esercizio di solitudine che le truppe e le fanfare non sanno mascherare.
Federico è la partita che Antonio Errico ha sempre raccontato, voce d’un richiamo perduto nel fogliame, sagoma impaurita, desolata, sembianza e mai presenza. Materia impalpabile, trama che soffia dalle fessure, che s’insinua sotto la porta, che si rigenera nella scrittura stessa. Occasionale ogni certezza, spoglia di vanità. Come per Enea, Creusa, Didone, Turno, Cassandra, Gustave, ogni storia è un pretesto perché la voce narri le derive che ogni storia non contiene. Antonio Errico ha sempre scritto di questo agognato sogno di contenere, della conquista di una fioca serenità. Che dimora solo al confine estremo, laddove ogni conto è da pagare. Dove si dimentica tutto e si è saggi per poco, per il primo e già ultimo giorno. Per Federico la Storia è il monologo d’un solitario dileguarsi, d’un lento, sfumato volteggiamento in fiocco, sbuffo foglia morta. A ritmo di malesciàna. «Pronunciala, sire, disse. Malesciàna. Pronunciala ancora. Malesciàna. Io dicevo malesciàna e sentivo dentro di me uno sfinimento dolce». Malesciàna non è soltanto malinconia, ma il logorio dell’onda sull’arenile, incessante, incolpevole, tedioso. È la rete che strascica sul fondo, è il giorno che scorre sulle ore senza tempo, senza meta. Il lavorare stanca di Pavese: «Traversare una strada per scappare di casa / lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira / tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo / e non scappa di casa».
Ne è piena la storia, ne è stracolma di sentimenti che non possiamo contrarre in una nozione, ma solo costeggiare con i versi, una musica, un racconto. Saudade, ennui, fado, tango, malesciàna.
Ne L’ultima caccia di Federico Re di Antonio Errico, Federico vaga, stretto nella sua divisa di perdite, di perdente. Perdente è stato Enea e ogni figura del mito che Antonio Errico ha liberato sulla pagina. Perdenti perché spogli, inermi, testardi, deliranti tessitori dell’oblio. Rinati. Come l’Accattone di Pasolini morente sul ciglio di borgata che esala il suo «mo’ sì che sto bene». Come il cacciatore che s’abbandona alla preda o il suo contrario, non importa. «Non importa, non voglio, non ho mai avuto, non ricordo, non lo so, non tornare, non puoi restare, non basta, non capivo, non ci sarà». Sono tutte negazioni, sono tutte le certezze che Federico moltiplica a dismisura nel racconto; se solo una volta gli accade di inciampare su una presunta verità, subito la dirotta in mille e più derive, là dove le storie s’intrecciano ai destini di mille e più esistenze, luoghi, prede. Alle mille e più anime salve. Federico non è lo sconfitto di alcuna Storia, è il perdente. È diverso. Se l’altra faccia della sconfitta è la vittoria, quella della perdita è il ritrovamento. Il Fanciullo di Puglia ora è salvo, anima solitaria che sa, grazie al buio profondo dei suoi occhi. Che finalmente ritrova e contiene.
Il racconto di Federico è un incessante scorrere di titoli di coda. Quei titoli che non leggiamo mai nei film, quando in sala ritornano la luce fredda e il vocio indistinto, quando malmeniamo lo sguardo nello sguardo dell’altro, riflessi deformati di uno smarrimento. Quei titoli in cui scopri tutto ciò che del film non ti aspettavi. Quei titoli di coda sono il film di Federico, i nomi di quelli che non aspirano ad un premio perché la loro storia comincia e finisce altrove. «Vorrei dirti della luce alla controra, della luce quando non c’è più quasi sole e non c’è ancora luna, e il cielo è come una soglia, un limite, l’inizio di una fine».
Ogni immagine è in quei titoli di coda. Ogni storia parla attraverso quei titoli di coda.
Ogni parola di Federico è destinata ad una preghiera: che quei titoli di coda ritornino una volta, un’altra sola, a scorrere sugli occhi ciechi, stanchi, una sola volta ancora. Occhi che sapranno contenere la fuga e il ritorno, che avranno un’allegria indolente di giullare, che vedranno con gli occhi della preda. Perché Federico non può, non sa abbandonarsi alla fine senza un morso alle labbra. Gli manca la preda, la fine, proprio quando lei viene e la reclama daccapo. Lei era là nel fogliame ad un passo di neve e una volta fuggita lui già la rivuole. Il Re sa che nessuna parola potrà più riaprire la caccia, ma dispera in un ultimo titolo di coda, lo insegue e lo grida, «anche solo a metà».
Alla fine del tempo, brevemente in corsivo, si scioglie un raccontami ancora, perché la nenia riannodi ogni filo sospeso. Perché si srotoli la tela del cantastorie, intrecciata all’incanto, alla fantasia.
E sarà il racconto che forse un puparo inscena per strada, la ventura e la malasorte di Re Federico che cieco nel bosco segue una preda, che lui cacciatore dolcemente stana con sole parole.
Il monologo di Federico è un teatro in cui le voci frantumano in rivoli di voci nascoste che prendono la forma di falco e di nube, valle e ficodindia, foglia e cavallo, pozzo di chitarra. E neve soprattutto, dolce lieve carezzevole ossessione.
E teatro sarà.