Antonio Errico, Stralune

29-01-2008

Le ipnotiche stralune di Errico, di Daniela Pastore

Un disertore ritorna nella notte. Ha tradito una guerra in cui non crede per ritrovare la sua dimensione vera, per riabbracciare la madre, il padre, la donna amata, i figli. Per ricongiungersi con un Sud che è inciso nel suo dna.
È un viaggio raccontato con la lingua di un poema il nuovo, intenso romanzo di Antonio Errico, Stralune. È un itinerario tortuoso, labirintico, a tratti allucinato. Stralunato, appunto. Una dolcissima ipnosi che confonde e intrappola il lettore sin dalle prime pagine. Un romanzo senza nomi, perché i protagonisti sono archetipi che ognuno di noi riconosce per istinto.
“È la mia opera più matura – commenta lo scrittore – ci ho messo quattro anni a comporla, ha una struttura narrativa più complessa e completa rispetto a L’ultima caccia, il mio precedente romanzo sulla vita di Federico II.”
Ed è l’opera che più di ogni altra riesce a raccontare la maledizione/benedizione di essere generati a Sud. Le immagini del libro sono splendide tele ad olio: una madre che “vive morta” dentro una casa vuota, millepiedi arrotati sulla calce delle pareti, vigneti, fienili, controre deserte, fantasmi della memoria, processioni, fichi spaccati lasciati appassire al solleone, malinconie, latrati di cane nella notte, melagrani.
Il paesaggio esteriore finisce col confondersi con quello interiore. Ed allora chi racconta non è più affidabile. “Questo ritorno nel paese natio potrebbe essere reale, ma potrebbe essere anche solo il frutto dell’immaginazione del protagonista, uno stralunamento sul cammino della diserzione”, avverte Errico.
Del resto, il romanzo inizia con un avviso ai naviganti: “Colui che racconta è colui che ha tradito. Si tenga conto di questo durante il racconto. Se ne tenga conto quando il racconto è finito.” Di chi fidarsi allora? Di nessuno. È anche questo il Sud, il Salento. L’Oriente fedifrago delle Mille e una notte, il cono d’ombra di una realtà che senza “stralunamenti” potrebbe accecare. Dei personaggi di Errico si innamora perdutamente chi ha avuto i vuoti e i silenzi e il tempo notturno per contare i granelli di una clessidra. Quel “tempo perso” che ti fa poi gustare fino in fondo un racconto meridiano, un racconto che confonde le carte, che slabbra i contorni, che sospende l’esistenza.
Stralune è poi una partitura musicale. Si legge come fosse una ballata, una musica araba, un canto antico: “Sarà per la contezza che mi manca. Sarà perché mi manca la misura. Sarà perché mi manca respiro e nervatura. Sarà perché è la vita che mi manca.” Sarà, sarà, perché, perché… il ritmo abbassa la soglia della reattività, induce all’abbandono. È una resa totale, alla fine, quella del lettore alla scrittura di Errico, al monologo del suo protagonista, veritiero o mendace che sia. È una resa all’incanto della letteratura che, ha ragione Manganelli, è in fondo la più dolce menzogna che si possa raccontare.