Antonio Errico, Stralune

01-01-2009

Passioni, paure e incantamenti, di Valeria Nicoletti

Stralune è un libro che si legge a mezza voce. Non si declama per non violarne l’intimità, per non indebolire il vigore di pensieri che da soli stringono la gola. È un libro che non si legge a mente, per non smorzare l’incisività di una prosa poetica struggente, il ritmo delle anafore, l’ammiccare di rime nascoste, il climax di passioni e paure e il susseguirsi di suoni che danno vita a incantamenti.
Stralune si legge a metà respiro, per gustarne i contrasti, la ruvidezza delle parole, il languore dei sentimenti ritratti. Antonio Errico gioca con i contrari, le antinomie e, per dare il giusto riflesso, la sfumatura indovinata, ad ogni emozione, conia nuove parole. Buiore, sognamento, scurenza, così dipinge il dramma dell’attesa, il rumore del tempo che passa, il male di vivere giorni uguali, il dolore dei risvegli tutti grigi. Si traduce in una galleria di poemi, in una sequela di rimpianti e confessioni il racconto della crepa di una vita, nata in una terra dove si impara ad aspettare il niente, a convivere con un’attesa senza mete, uno scorrere di attimi infernali, di quell’inferno freddo senza né fiamme né forconi. Dal prologo iniziale, che richiama le atmosfere del Sergente nella neve, si intuisce la figura di un ultimo paladino, di un soldato reduce, sul viale del tramonto della sua cupa tragedia. Reduce in patria, lì dove anche il ritorno è uguale alla sconfitta, perché più non si distingue quel che c’è da quel che c’era, perché più non si riesce ad accettare che quello che si è visto crescere alla luce di anni verdi possa essere scomparso. Il luccichio di lustrini al petto, le gonne ampie dei balli, la musica, le giostre, tutto perso, niente è rimasto uguale, paziente fino al suo ritorno. Nel paese di ghirlande secche di case ormai morte, di alberi spogli, un’ombra sembra l’unica anima immune alla fredda immobilità invernale. Solo un’ombra che, come lo spirito del Natale passato di dickensiana memoria, riporta il figlio alla madre, il ragazzino dal padre, l’uomo dalla donna amata, per riaprire vecchie porte sprangate e rituffarsi in occhi bagnati di lacrime.
Si snocciola così il passato, il presente, un futuro sempre meno terso, di un uomo, la cui vita si fa leggenda. “Nessuno saprà se sono morto, perché non saprà mai se fui davvero vivo.” Questa parabola di una vita in guerra, in bilico tra la vita passata, amata e fuggita e un presente sempre più lacerato dai fantasmi di ieri si fa metafora di un territorio, si fa anima di un luogo, che ha visto tante partenze e pochi arrivi, che dice addio a occhi lucenti e visi freschi e riaccoglie in terra ostile membra stanche e anime nostalgiche. Qui si canta la “radice del ricordo”, di una latitudine che non cambia volto. Le coordinate spazio-temporali svaniscono “in una lenta dissolvenza”. Non ci sono nomi, non ci sono luoghi. Solo sembra di scorgere l’anima barocca di Lecce, di una città eccentrica questa volta tenuta a bada dall’intensità di vite vissute e consumatesi nei suoi vicoli, nelle sue casupole corrugate, sparite tra le pieghe delle vecchie mura. Emerge da quest’enigma che trascina fino all’ultimo un che di incompiuto, che si srotola disseminando indizi come un giallo, una luce forse dei primi decenni del Novecento, qui si tira a indovinare, che di sé mostra la ruota degli esposti, i platani del viale che porta alla stazione, la chiesa sconsacrata, la porta della lupa, lo scirocco impietoso e gli attimi di morte della controra. Tutto il resto è solo poesia, quella più autentica e cruda, delle mattine solitarie dove l’odore del caffè risveglia ricordi amari, quella dei letti troppo grandi caldi solo per metà, della luce scialba, indizio di vita fuori dalle persiane, del tempo “malazzato, stranito, avvelenato”, della solitudine che scatena un sospetto di castigo, del “maletempo cupo”.
“Cominciava a piovere acquaneve…”, su una magia di pioggia e gelo si alza il sipario, sull’unica mezza misura concessa a quelle terre che sono troppo ardenti. Ma quando la vera neve comincia a cadere, allora forse di favola si tratta, di contorni indecisi, di genere confusi, di realtà e finzione perché “non è bugiarda e non è sincera la storia che tutti raccontiamo di noi”. Questo è tempo di stralune, di illusioni perdute e alla resa dei conti non è vita quella che abbiamo vissuto, lo è quella che ne ricordiamo, lo è quella che gli altri ricordano di noi.