Antonio Errico, Stralune

25-01-2009
Per il disertore o il suo fantasma è struggente l’attesa del niente, di Giacomo Annibaldis

Non c’è che un accento a distinguere il tràdito dal tradito, colui che tramanda da colui che diserta. E questa differenza luccica nelle prime parole del romanzo Stralune di Antonio Errico: «colui che racconta è colui che ha tradito».
Il romanzo «stralunato» narra il ritorno di un militare al suo paese, alla sua casa. Un «soldato ardimentoso di ventura», si autodefinisce il protagonista, aggiungendo: «poi sarò forse una pallida figura». Mistero, penombre, dissolvenze si addensano su questo personaggio, che si muove in una notte gelida di fine anno, sotto l’acquaneve. Via via, il lettore carpirà dai monologhi e dai vaghi accenni notizie utili all’identificazione: si capirà che è un disertore, che venti anni prima si era rifiutato di marciare con il suo contingente presso un valico (ed era stato perciò minacciato dal suo sergente con una pistola alle tempie). Era un giorno dei primi di settembre, allora, e «il grano era mietuto, l’uva ancora acerba». E ora, dopo venti lunghi anni, il soldato è tornato, tra le tombe messapiche, tra i castelli e i torrioni di una città pugliese e adriatica, con il suo angiporto, dal quale si possono intravedere all’orizzonte i monti d’Albania (forse Otranto?). tutti elementi immersi nella nebbia e nel crepuscolo; in una trama d’azioni quasi inconsistenti e segnate da onirica dissoluzione. Tanto che il lettore potrà essere indotto in tentazione: quella di individuare nel suo ritorno a casa, il nòstos di un fantasma, di un’anima che non trova requie, che ha bisogno di ricapitolare «un passato pensato come un lungo desiderio». Ovvero – in un rovesciamento di inquietudine – il ritorno di un reduce che cerca di rivedere i luoghi e le persone care, diventate soltanto ombre, in cui la memoria «è come una salsedine, un alone di fuliggine che non va più via».
Romanzo? Così viene definito in copertina Stralune di Errico: sinceramente a noi pare un accattivante poema in prosa. E della lirica calca tutte le tracce, con la dilatazione di percezioni e sentimenti, con il catalogo di emozioni, con la rifrazione descrittiva. Ma anche – sotto l’aspetto formale – con l’uso sapiente della rima interna, con l’impiega dell’anafora, la reiterazione lirica, con il gioco di titolare i capitoli con le prime parole (quasi petrarchesca canzone).
Di certo l’accumulo di immagini e di sensazioni non può non ricordare il fremito del barocco salentino sovraccarico di putti, figure, bestiari, racemi e foglie… un dolce carico di crema e spezie. Anche qui c’è il Salento che Antonio Errico va raccontando nei suoi numerosi volumi o nei saggi, da Tra il meraviglioso e il quotidiano del 1985 al recente Viaggio a Finibusterrae del 2007.
La cadenza dei capitoli propone una sua geometria, alternando quelli in terza persona con altri in cui personaggi diversi parlano in prima persona, in monologhi o lamenti. Nei primi il protagonista si muove si muove nel paesaggio notturno della città separata – da un ponte che la «divide in scirocco e tramontana, menzogna e verità, commedia e dramma»; qui egli è guidato da un’ombra sfuggente che lo adesca nei vicoli e lo conduce accadere e non è venuto, è l’«inaspettato che viene».
Negli altri capitoli invece prendono la parola dapprima la madre, poi una ragazza che avrebbe potuto essere sua figlia, la figlia di un padre «che non è più tornato», quindi la sua donna abbandonata senza un perché, e infine il padre. Ed è quest’ultimo a incitarlo ad andar via subito, a incitarlo a un’ulteriore diserzione, quella della memoria, della completa dimenticanza.
Avvolti dal «sospetto che il senso vero dell’attesa sia l’aspettare il niente», ritroveremo infine un uomo congelato e smemorato sulla panchina di marmo, il 1° gennaio di un nuovo anno. E constateremo che l’arrivo di questo ignoto barbone vestito da militare è come l’affiorare di «un ricordo morto». Ma struggente.