Antonio Errico, Stralune

17-02-2009

La guerra, la fuga, il ritorno, di Antonio Prete

Nel romanzo recente di Antonio Errico, Stralune (Manni, 2008) il tema del ritorno - il classico nóstos dalla guerra - ha al centro un personaggio che ha smarrimenti di sé e ombre di rammemorazione, ferite aperte e baluginanti soprassalti di angoscia, ritrovamenti di dolcezza e aridità sconfinata. E questo ventaglio ampio del sentire è affidato a un andamento che ha il ritmo come respiro e misura stessa del narrare. Per questo l’iterazione, la ripresa, il movimento di un dire che è poematico, diventano i modi propri del racconto. Non solo la lingua si allarga in volute infiorate e si gonfia, prende i modi della litania e del coro, ma anche la città di mare, le strade, le piazze, gli interni delle case, gli oggetti, le figure si allineano in una sorta di notturna trasparenza, una trasparenza appena allusa.
E tutto, affiorare di ricordi e vento di albe, frammenti di abbandoni amorosi e giochi d’infanzia, stordimento di paesaggi e seduzioni di corpi femminili, sere di festive luminarie e arsi pomeriggi di controra, proprio tutto precipita in questa iterazione. Che è come una musica ossessiva sulla quale si levano leggere variazioni tonali. E il sentire ha gradazioni che muovono dal monologo di un personaggio - la madre, il padre, il figlio stesso, l’ombra di una donna incontrata nella notte - e finiscono col costituire una messa in scena della condizione umana in quanto tale: affanno e consolazione, compianto e evocazione, lampeggiamenti e flussi di coscienza, interrogazioni e percezioni corporee dell’altro concorrono a creare queste scene, sospese, tutte, in una notturna inchiesta sul senso del passato, sul senso stesso dell’esistenza Il libro di Errico non si affida alla fabula ma alla sequenza dell’apparire, direi quasi a un teatro tragico, mediterraneo, greco, del ritorno. E si sa che nel ritorno non c’è il ritrovamento di quel mondo lasciato alla partenza, non c’è il ritrovamento di sé. Diciamo che il vero basso continuo di questo racconto-poema è il tempo, e dunque la memoria. La memoria offesa, travagliata, scompigliata, eppure tutta tesa a legarsi a fili e frammenti, ad apparizioni e barbagli di immagini che emergono dal buio, la memoria tutta tesa ad accogliere il ricordo che naviga nella nebulosa del già stato, dell’irreversibile, nella non consistenza di quel che è davvero finito.
La lingua di Errico qui prosegue, approfondendo ritmi e dispiegando modi elencativi, quel gusto della ripetizione, dell’accumulo, della sequenza svolta per addizione, già mostrato in precedenti prove, come Viaggio a Finibusterrae, libro tutto dedicato all’esplorazione del Salento, dei suoi miti e delle sue bellezze, delle sue luci e delle sue ferite. L’amplificazione, insomma, e la paratassi come modi incantatori, quasi liturgici, del narrare sono le cifre più evidenti.
Il racconto incontra a un certo punto l’invito di una voce a dimenticare, ma proprio nell’atto del dimenticare ricompare la vita in tutte le sue allucinate attrazioni, nei particolari perduti che tornano: animali, gesti, giocattoli, cibi, profumo del mare, luci della piazza, bolero della banda, «quaresime appese ai fili della luce», o ancora «nomi scritti sul vapore dei vetri». E c’è una casa perduta e sognata, come in ogni epica del ritorno, c’è una madre, anch’essa perduta e sognata, ma tutto è già accaduto, le ragazze, il loro profumo, la bellezza, tutto, quando si torna, è davvero già accaduto, nulla di nuovo si acquist nel ritorno. In effetti è proprio l’esperienza della lontananza che si perde nel ritorno. E che forse solo il ricordo, il ricordo nel racconto, può ancora attingere e preservare.
E il personaggio questo soltanto sa, dinanzi all’ombra di lei che ritrova tornando, sa che deve raccontare. Raccontare sottraendo immagini, e pensieri, alla nebulosa di una vita non vissuta se non nelle ferite di quel che è già mancante. Sa che deve raccontare i nomi che si scordano, le ombre, il vuoto che si sente dentro. Raccontare il nome del padre perduto, raccontare una notte, quella notte di guerra, la notte degli spari, della fuga. Raccontare la propria dimenticanza. Ed è allora che appare una possibilità. «Gli sembrò che adesso l’ombra sorridesse». Poteva andare, adesso.