Antonio Errico, Viaggio a Finibusterrae

18-12-2007

Una lettura, di Livio Romano

Del Fenomeno Salento si parla troppo e dei salentini che si parlano addosso francamente non se ne può più. Sembra concordare con questo assunto Antonio Errico che, nel suo ultimo libro, Viaggio a Finibus terrae edito da Manni, a pag. 75 urla contro coloro i quali operano reductiones ad unum quando, per stigmatizzare la poetica dei nostri maggiori poeti, invocano un auspicato e mai avvenuto superamento della “nostalgia dei muretti a secco e del mare”. Come se la grandezza dei Bodini, Ercole D’Andrea, Comi, Toma, Verri, De Donno non fosse piuttosto da rintracciare nell’affannosa ricerca linguistica e di senso che ha reso la loro poesia universale.
In questa raccolta di saggi in forma letteraria Errico compie, come promette nel titolo, un viaggio verso quella terra che è anche conosciuta come Fine della Terra. Si tratta di un percorso, tuttavia, che del materiale tragitto per panorami e genti ha molto poco poiché, come quest’autore ci ha abituati a fare (e come è proprio della grande letteratura), le storie le riflessioni argute i bozzetti riversati in queste pagine densissime, pur prendendo a pretesto il reportage letterario e culturale della Terra d’Otranto: non fanno che infine raccontare un landscape che è tutto interiore, privato, a tratti confidenziale.
Errico non fa che ribadire che occorrerebbe guardare al Salento con gli occhi di un forestiero per coglierne il genius loci, per carpire le infinite sfumature di un posto che è anzitutto un “luogo della e per la scrittura” così come Dublino per Joyce o Venezia per Mann. Lembo proteso sul mare come allegoria di confine, di oscillazione fra noto e ignoto, fra terra –consueta, rassicurante, punteggiata di pietre scolpite e palpitanti che fanno un tutt’uno con la scogliera e il terreno calcareo e soffice di cui è costitutita questa “penisola della penisola”- e tessuto connettivo dell’umanità da cui partire per viaggi mitologici, o solo immaginare di farlo.
Dalla prospettiva dello scrittore –per definizione sempre in cerca di vacuum- in definitiva il Salento, rispetto al quale Errico continua a chiedersi “Dov’è?”, è un non-luogo se, come la Bretagna (o, aggiungiamo, la Cornovaglia) è finis terrae in cui la geografia si smaterializza e “le parole confinano da ogni parte con altre parole”. A rafforzare quest’idea del tutto controcorrente che porta avanti l’autore per oltre cento pagine, si diceva, ci sono pietre, dappertutto. Non solo menhir e dolmen e prospetti di chiese di sflogorante barocco belli da mozzare il fiato, che schermano interni viceversa privi di orpelli perché inutili (giacché se Dio non c’è, come i leccesi sanno -avvertiva Bene- tanto vale, dopo lo sfavillio della facciata, varcare la soglia e ritrovarsi dentro ingranaggi inservibili, umili, disadorni). Non è solo la commossa osservazione dei fari che punteggiano la costa, elementi verticali che spezzano la smisurata orrizzontalità della tavola turchina. A pietrificare il paesaggio di Errico –ad allontanarlo, quindi, dagli “intrugli folcloristici” e restituirgli un’identità primigenia, distante anni luce dal sociologicume della destagionalizzazione e del sistema-turismo, dei media partners e degli imprenditori “illuminati” che danno del “collaboratore” agli operai e concionano spaventosamente intorno al “ruolo sociale dell’impresa”- concorrono tutte le zoomate che l’autore opera su singoli scorci di Salento. Dalle chiese sobrie di Galatone, proiezione della vocazione agricola della cittadina, all’aria rarefatta, gonfia di salsedine all’interno della teoria di tempietti gallipolini a picco sul mare. Dall’indimenticabile ripresa della metafora demartiniana delle nuvole che riverberano le navi minacciose dei pirati alla decadente tristezza e agli effluvi solforosi di Santa Cesarea da cui è bene “scappare, se non hai un amore” all’abitazione di Ercole D’Andrea dalla quale il poeta non si staccava mai, luogo di oggetti cari, fonte essi soltanto di ispirazione, alla luce immaginata da Barthes alla fine del tragitto Milano-Lecce: tutto, compresa la luna, converge verso la scarnificazione, la depersonalizzazione del paesaggio. Il che suona come un monito che recupera le parole di Bodini (“Il Sud ci fu padre, nostra madre l’Europa”): l’arte che nasce a queste latitudini si fa universale soltanto quando abbandona le debolezze dell’oleografia e prova davvero ad affacciarsi su quel precipizio minaccioso e allegorico che si apre sul sagrato di Santa Maria di Leuca.
C’è solo un personaggio in carne e ossa, non a caso un forestiero, che, in una notte d’estate, intona il suo canto sinistro dalla cima di un campanile: “Ridi pagliaccio…” che diventa un tormentone per i paesani. È un naufrago elliottiano o, se si vuole, la Mouth bekettiana. La voce dell’assurdo che blatera al vento l’invincibile male di essere al mondo.