Antonio Fabi, Tragico riso

01-01-2006

Scherzi mitologici ed epigrammi, di Gualtiero de Santi

Ogni volta che ci si pone o ci si ritrova di fronte a strutture formali che paiono inusuali e che comunque si rivelino legate alla tradizione e per ciò stesso in larga parte neglette, è convenzione presso che universale deplorare la caduta di una pratica di scrittura che fu in altri tempi illustre. Un esempio su tutti: l’assenza di una tradizione epigrammatica e satirica nella nostra più recente letteratura ha innescato le più svariate volte in lettori e critici un meccanismo di lamentazione. Certo ci sono stati nel secondo Novecento Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini, di recente anche Giuseppe Favati. Né si può dimenticare Tito Balestra, che per Attilio Bertolucci era un fratello lontano e vicino di Marziale oltreché di Sandro Penna. Qualcun altro potrebbe ritrovarsi accluso a un elenco che tuttavia non si pretende troppo lungo.
In ogni caso, il versante più platealmente ignorato dalla critica, o comunque il meno indagato e frequentato, è proprio quello di procedimenti e elaborazioni che si vogliano liberi da condizionamenti, sia di forma che di contenuto. Scritture che non dimentiche della realtà, sappiano però sbizzarrirsi negli andirivieni scoppiettanti e ridevoli di risorse verbali alle quali non viene mai apposta la mordacchia. Così, pare di poter sostenere che questo Tragico riso di Antonio Fabi, qui alla sua opera d’esordio, debba essere fatto risalire di diritto a questa seconda linea (per cui, più che un Franco Fortini o un Pasolini, le antecedenze investono ad es. un Giorgio Calcagno e tutta una tradizione facile all’ironia e provocante). Il che non vuol dire che il richiamo alla realtà e all’attualità anche politica non risulti altrettanto coinvolgente e attivo. Come decisamente calibrato è giocoforza –dato il riallaccio alla sopra menzionata linea di tradizione– l’impiego dei metri e delle rime.
Pertanto quella che Fabi apertamente professa è la forma breve: quartine, distici, sonetti caudati e non, strambotti e indovinelli. Un territorio nel quale si incrociano di sguincio Gioacchino Rossini e Giuseppe Gioacchino Belli, e andando addietro nei secoli certi nostri trecentisti e ovviamente il Burchiello data la preferenza per le code in versi. Certo questa poesia rivendica un proprio carattere di fronte a un’ipotesi e a una pratica scritturale che si vuole irreversibilmente lirica e soggettiva, fatto da noi in Italia inveterato in ordine soprattutto a una linea monolinguistica e sentimentale. L’insinuante e suggestivo titolo, suggerito all’autore dalla curatrice della collana Occasioni della Piero Manni editrice, Anna Grazia D’Oria, preme l’acceleratore su una spirale per così dire pensierosa e filosofica. Si starebbe dunque sul versante di un riso amarognolo e anche di svelatore della realtà del mondo.
L’ossimoro funziona ovviamente bene all’interno della materia Fabiana, che è in qualche modo la materia del teatro della società e dei suoi vizi (con una spiccata inclinazione, data la professione dell’autore, per l’universo forense). Ma essa poi si filtra in una concertazione musicale e sbrigliata, suscettiva di evocare la follia degli umani. L’oscillazione –presente anche in quel richiamo che il sottotitolo della raccolta avanza alla mitologia e al riso epigrammatico– si allarga dunque tra una tipologia generale e le appoggiature sul reale. Cresce tra quadretti morali per così dire sovratemporali e richiami pressanti al presente; tra un gioco anche scolastico (nel senso migliore del termine, per nulla dimentico delle acquisizioni conosciute primamente sui banchi di scuola) e una semantica viceversa attenta all’attualità (un esempio: “Fedele è Emilio; ma Confalonieri / potere dire che non sia fedele?”; altro bell’esempio: “Cos’ha globalizzato / la globalizzazione? Chi era disgraziato / adesso e anche minchione”).
Il riso comunque si accende sempre in una concertazione idealmente e linguisticamente impegnativa, anzi nel proprio modo “tragica”. Senza che le forme, guizzanti e aeree, sonanti e divertire, dimettano quella levità e scorrevolezza che le fa vivere e consistere in un loro decorso imprescindibile. Ed è questo il maggior elogio che si possa fare alla poesia spiritosa ed arguta di Antonio Fabi.