C’è anche un risarcimento per scripturam, tra i tanti possibili. Nel senso che si può oltraggiare la vita, in se stessi e negli altri, anche a sangue, e in senso anche letterale, con un coltello tra le mani vibrato a forza nella pancia di un altro detenuto nell’inferno di un carcere. Uno tra i tanti frequentati. Si possono accettare le stimmate del proprio delirio di stupidità, tutte, e quindi ritrovarsi, quasi compiacendosene, incamminati per una strada di autodistruzione percorsa fino in fondo, pur nella coscienza consapevole dell’abisso che sta alla sua fine: tra il vuoto dello strafarsi di droga e il non sapersi sottrarre al buco nero della perdizione maledetta, dentro quel modo della “mala” e poi del carcere che sconta tutti i luoghi comuni della comune guapperia e della vuota catabasi dentro il nulla di una sterile autocommiserazione. Dove anche il masturbarsi a sangue diventa punizione suppletiva inflitta dalla coscienza. Si possono fare queste cose, e insieme incastonarle, come vissuto di disperata aneddotica, dentro un mondo di parole lucide, percorse da un brivido di ironia che le dilata e le impreziosisce, senza punto caricarle di significati sociologici ma non sottraendo loro il senso di denuncia, comunque, di una situazione umana, e non del solo scrittore: quale ci giunge, giorno dopo giorno, dall’universo oscuro dei reclusi. Sofri docet. Sta dentro queste coordinate il positivo di questo «diario di carcere», di “scuri” e seghe, di trip e di sventure», come recita il sottotitolo, che Antonio Perrone, carcerato quasi a vita ma scrittore finissimo, ha scritto dal fondo delle tante celle frequentate, frutto di una vita dilapidata senza senso; e che lui intitola Vista d’interni, quasi a sottolineare il suo essere “dentro” e il consequenziale non avere altra dimensione dell’esistere che quella di una vita racchiusa nel panorama ristretto di quattro pareti, alternate a percorsi d’aria cunicolari e a faticose letture e ancor più faticose scritture, piene di un’umanità tanto varia quanto passeggera, deturpata dall’esclusione e testimone involontaria di ogni degrado. Un diario, dicevamo. Che dura poco più di due anni, dal giugno del ’97 al gennaio del 2001, e che si snoda su due livelli: uno della registrazione immediata dei minimalia di una vita sempre uguale a se stessa, uno del ricordo articolato in commi, che segnano l’affiorare nella memoria dei momenti in cui il destino si è formato e poi compiuto nelle tragiche sequenze dell’incontro con la Sacra Corona Unita (gli “scuri”, con la droga, con la cattura dentro il giro della disperazione senza fine. Che le pagine umanissime degli ultimi giorni, segnate da un affiorare di umana debolezza, registrano appieno.