Antonio Porta, La scomparsa del corpo

12-01-2012

 (In)ter(per)culturando, di Barbara Gozzi

Meglio giocare a carte scoperte. So benissimo che i lettori le sanno scoprire meglio degli autori, soprattutto di quelli che credono di essere più furbi di tutti, per esempio gli scrittori di romanzi gialli. Ho conosciuto lettori che riuscivano a dare la soluzione dopo sole trenta pagine: deve essere nato così il “giallo” senza soluzione o con soluzioni ancor più ovvie, cioè dalla disperazione dei giallisti colti con le mani nel sacco. Dunque “a carte scoperte”: con quella donna avevo normali rapporti di lavoro e abbastanza soddisfacenti ma non riuscivo a fare a meno di pensare l’oltre, cioè il possibile “dopo”, o “di più”, come un qualunque maschilista per cui ogni occasione potrebbe essere quella buona.
 
Scopro un’altra carta. Con lei, come con qualsiasi altra, prima di fare una mossa, di compiere un primo passo quale preludio al corteggiamento vero e proprio, proiettavo nella mia mente il futuro film dei nostri possibili rapporti e osser- vando quel film potevo capire se ne valeva la pena o no.
(stralcio dal racconto Doppio menù, 18 gennaio 1987)
 
La scomparsa del corpo raccoglie ventidue racconti che Antonio Porta scrisse nel ventennio dagli anni Sessanta agli Ottanta. Si tratta di una pubblicazione postuma quella di Manni (settembre 2010) che – in qualche modo – mette un ‘punto’ restituendo al lettore in questa ‘veste unitaria’ scritti che si sono susseguiti nel tempo, sfilacciandosi e diramandosi in autonomia (alcuni già divulgati altri no) com’era nel pathos del poeta, dedito a progetto spesso destinati a rimanere ‘incompiuti’ o comunque dove non ha ‘ufficialmente’ e ‘definitivamente’ messo lui stesso la parola fine.
 
Si tratta dunque di racconti e sono, per certi versi, vere e proprie sfocature autonome, sorprendenti per spennellate, linguaggio e intenti. Inutile arrovellarsi: anche chi non conosce Antonio Porta ne assorbe gli umore poetici dentro struttura d’una prosa piegata alle singole esigenze del racconto laddove –di fatto – Porta non ‘racconta’ necessariamente una storia precisa, un ‘plot’ come si dice oggi, più spesso si tratta di bozzoli, ragionamenti vestiti da scene, parole che delimitano contorni ampi, intrecci sfocati, trame dai tessuti vari, e in perenne movimento.
 
Sorprendente, invece, per chi conosce il Porta poeta, questo libro apre nuovi scenari, perché in ogni racconto c’è un intento creativo a virare tra tematiche, atmosfere, gestioni linguistiche quanto strutturali. Non si tratta di esercizi di stile, sia chiaro. Può sembrarlo a un primo ascolto frettoloso che cerca svolgimenti tra inizi e conclusioni. Può sembrarlo ma così non è, esattamente come non lo è mai stato nella poetica di Porta che nelle parole cerca aderenze, sostanze, carne e sangue.
 
Il titolo si rifà al quintultimo racconto, che per certi versi è uno spartiacque, una definitiva ufficializzazione dell’esplorazione sensuale, con punte erotiche quanto chirurgiche, che l’autore fa dei corpi e di ciò che essi sono, rappresentano, ma anche di ciò che resta, di quanto la carne cozza con la mente e l’immaginazione e di quanto invece diventa materiale molle in esplorazione sensoriale ed interpretativa.
Ricordi, rose e fior? È questo il corpo? Sull’onda della canzone, che da anni mi attraversa la mente, e mi concilia con la morte, risento la voce di Giovanni Pascoli, stavo pensando- ci prima dell’incidente del tram, di cui ho appena raccontato. La sua voce che parla di due cugini, del piccolo cugino maschio che muore alle soglie dell’adolescenza, come uno sposo incompiuto. Di lui morto succede che “dal mite suo cuore, ora, senza perché, fioriscono le margherite, e i non ti scordar di me”. C’è un perché nella canzone? Un perché nel piccolo corpo che diventa un “non ti scordar di me”? La mia risposta è semplice, la azzardo lo stesso, il nostro bisogno di immaginare un altro corpo capace di vivere al di là dell’incompiutezza di questo che viene chiamato reale, il corpo del ricordo e del futuro, vivo nel proprio nome, nella sua parola. Pieno, in- corruttibile, proprio come una parola esatta, come la parola albero, come la parola: rosa. Mi rendo subito conto che que- sta è ancora una domanda.
(finale del racconto ‘La scomparsa del corpo’, 17-19 gennaio 1987)
Un Porta, in sostanza, che scrive in prosa con particolare empatia e interesse per quegli aspetti del vivere dove i corpo sono, esistono, dominano, comandano, chiedono e riflettono. I corpi che sono materia quanto piacere, i corpi che individuano, localizzano, o al contrario proiettano immaginari residuali. I corpi che ragionano, propongono alternative e virate o espongono ciò che sono e hanno mescolando scenari differenti non necessariamente amorosi e sentimentali in senso stretto – anzi!
 
Ho trovato, in questa raccolta, tutta la necessità di Porta di insistere, sperimentare, cadere e rialzarsi combattendo contro una ‘modalità linguistica’che s’avverte essere per lui strada tortuosa, non sconosciuta, non inesplorata, ma meno padroneggiata eppure ostinatamente affrontata. La poesia aleggia sempre e comunque, nella scelta delle parole, tra sonorità rubate ai versi e pensieri articolati quasi d’un fiato. Ma è anche la scrittura della maratona, per un Porta abituato a fulminare i ‘cento metri’, questi racconti (che pure sono brevi rispetto agli standard del racconto in senso ampio) sono una maratona giocata tra velocità che strozzano il respiro e rallentamenti dove subentrano logiche e affondi.
La voce. Una voce che mi perseguita articolando frasi che il comune senso del senso considera frutti di un delirio. Eppure non ho la febbre. Non sono preda dell’alcool né di qual- che altra droga leggera. Una voce che mi invade per costringermi a parlare, a dire quello che non voglio dire, a fare la spia. Sì, fare la spia. Si capirà subito perché spia e di che cosa. La voce mi dice: metti una lingua al posto della vagina e par- la. Non sono mica una donna, balbetto. Ecco, risponde, par- la e sarai come me, come un dio, come una donna, un corpo celeste. Io sono la mela. Sono la tentazione, parla e sarai libero. Tu sei il diavolo, mi è facile rispondere, e io ti taglio l’uccello se non te ne vai. Provaci, provaci mi irride, e taglierai il tuo uccello credendo di tagliare il mio. Provvedi in tempo, continua, salvati.
(inizio del racconto ‘La voce’, 22-23 agosto 1981)
Interessante la ‘nota finale’ di Rosemary Liedl Porta (complimenti a chi, in casa editrice, ha scelto d’inserirla dopo i racconti e non prima, com’è invece nella recente abitudine editoriale, perché ciò che aggiunge va a inspessire e precisare quanto la lettura può aver lasciato).
 
Interessante perché aggiunge alcune annotazioni ‘tecniche’ sui racconti che la lettura può non aver notato (l’ordine di pubblicazione rispetto all’effettiva cronologia di scrittura, ma anche le informazioni sulle eventuali precedenti divulgazioni singole).
 
Ancora più interessante oggi – in tempi di continui e vari ‘dibattiti’, più mediatici che di ‘carne’, rispetto alla situazione editoriale italiana quanto il fenomeno del self publishing (e accanto o dietro l’intramontabile dinamica del ‘a pagamento’ pur di pubblicare) a lamentare continue incongruenze tra ‘qualità’ e ‘meritocrazia’ ma anche rispetto a ipotetiche o reali dinamiche che favorirebbero talune tipologie di autori: la nota di Rosemary Liedl inizia proprio raccontando come questa raccolta di racconti venne rifiutata degli editori degli anni ottanta (Porta iniziò a proporre la raccolta dopo la pubblicazione de ‘Il giardiniere contro il becchino’ del 1988 per Mondadori) per tutta una serie di motivi ricollegabili alle considerazioni di allora sull’andamento del mercato e dunque sulla vecchia dinamica della ‘domanda’ che domina e determina l’offerta.
 
Lascio a chi acquisterà il volume, il piacere di approfondire la ‘nota’ di Liedl, segnalo però che mi ha molto colpito un’annotazione, addotta come motivo di rifiuto che invece – oggi –sarebbe probabilmente per molti editori, anche medio-grandi, ragione di pubblicazione: “un forte fascino ma spesso oscuro, in modo tale da suscitare smarrimento”.
 
Ebbene sì, anche Antonio Porta, ormai consacrato dai testi universitari tra i principali esponenti della letteratura del secondo novecento italiano, ebbene sì: anche lui ha avuto talune difficoltà nel vedersi riconoscere la ‘qualità’ quanto il ‘valore’ del proprio operato (personalmente non credo tanto per l’approccio verso la prosa rispetto all’abituale e più frequentato territorio poetico).
 
Ne esce una scrittura che in effetti può disorientare, ma godibile, favorita dalla rapidità con cui si susseguono i racconti che - per certi ‘versi’, come si suol dire - sono quasi all’opposto di quelli d’una Munro, non per fare paragoni, ma per chiarirne approccio e intenti. C’è sempre un affondo (più di frequente, diversi) a delimitare ed evidenziare i contorni e le dinamiche degli abbozzi, i narratori quanto le scene sono funzionali alle carni quanto a ciò che essi sono e intendono rappresentare, non è possibile per Porta alleggerire il peso delle parole, non è possibile allentare la presa su quello spesso e fitto strato di significati e significanti, percezioni ed empatie che hanno reso la sua poetica un’esplosione di umori, gusti, strati e incastri.
 
Un libro da possedere, letteralmente.